28/09/2019 Ombretta Pisano 7487
Siamo sempre più dentro al mistero degli intrecci che formano la trama della città di Gerusalemme: il mischiarsi di antico e contemporaneo, il passaggio dalla memoria ebraica a quella cristiana. Il cammino ci ha portato oggi nel punto più alto di una delle colline che circondano la città e che agli occhi del salmista appaiono come dita di una mano (quella di Dio) che stringono un tesoro (la sua città): “sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio” (Is 62,3), o che ricordano al salmista la cura che Dio riserva al suo popolo :“I monti cingono Gerusalemme: il Signore è intorno al suo popolo ora e sempre.” (Sal 125,2). E’ il monte degli Ulivi, l’oriente di Gerusalemme da cui, secondo la visione del profeta Ezechiele, parte e poi ritorna la gloria del Signore (Ez 43,1-2). Questo monte è il punto di partenza dell’itinerario di chi vuole mettersi sui passi di Gesù, che da qui ebbe la visione della città su cui pianse e in cui entrò a dorso d’asino. Dal Monte degli Ulivi si gode il panorama più famoso, quello su cui svetta, al centro, la splendida Cupola d’Oro che sovrasta la roccia del monte Moriah. Prima di arrivare al celebre punto panoramico, però, è d’obbligo fermarsi all’edicola dell’Ascensione, un piccolo edificio a pianta ottagonale a cui si accede pagando 5 shekel a testa. Il luogo, oggi musulmano, sorge sulla roccia da cui Gesù si sarebbe staccato per salire al cielo.
Di mattina presto, quando la gran parte dei pellegrini ancora sta facendo colazione in albergo, si riesce a sostarvi in pace, leggendo la conclusione del Vangelo di Luca e il suo parallelo di Matteo, e l’inizio degli Atti. Ci troviamo a interrogare il testo e a interrogarci su questo misterioso modo di tornare del Risorto, “lo stesso in cui lo avete visto salire al cielo”, in un’allusione possibile alla vita intera di Gesù come modalità di ascesa al Padre, criterio che rende capaci di riconoscere il suo ritorno, tutt’altra cosa che una discesa “fisica” dall’alto.
Diversi sono i luoghi della memoria cristiana sul monte degli Ulivi, presso cui sostiamo in sequenza: la chiesa del Padre Nostro (il cui ingresso ora è a pagamento per la somma di 10 shekel a testa), sorta sull’antica basilica dell’Eleona edificata per ordine di Elena, madre di Costantino, con il suo giardino e lo splendido orto di ulivi, oasi di pace affacciata sulla valle di Giosafat (o valle del Cedron, o “del Giudizio”) e in cui sorge una grotta che lo storico Eusebio indica come luogo dove Gesù si ritirava a pregare; più in basso, la cappella della Dominus Flevit, da cui il Signore pianse su Gerusalemme (Lc 13,34-35) e poi ancora a scendere, arrivando al Getsemani, l’orto dell’agonia di Gesù con l’annessa chiesa delle Nazioni in cui si venera la roccia sulla quale il Signore in preghiera avrebbe sudato sangue. Diversamente dai due siti precedenti, il complesso del Getsemani non chiude all’ora di pranzo, momento in cui la maggior parte dei pellegrini va via. Sia il giardino che la chiesa si svuotano e all’interno vengono accesi dei ventilatori che stemperano il caldo opprimente offrendo un gradito sollievo. E poi c’è ancora la suggestiva chiesa della Tomba della Vergine (o dell’assunzione di Maria, o Santa Maria in Val di Giosafat), cui si accede scendendo sottoterra.
Visitare questi luoghi è sempre fonte di profonda suggestione, eppure c’è qualcos’altro che parla, molto più che gli edifici e le pietre, e sono le persone. A Gerusalemme ti basta sedere in un bar, o su degli scalini osservando tutta l’umanità che passa, per perdere completamente la nozione del tempo che scorre. Oggi, nel nostro cammino, guardando alle folle di pellegrini indaffarati a scattare foto e fare selfie, e ai pochi che cercano un po’ di raccoglimento rifugiandosi in qualche angoletto, mi sono tornate alla mente più volte queste parole: “Che cercate?”. Che cerchiamo, quando veniamo a Gerusalemme? Per il momento accontentiamoci di capire cosa non va cercato. Per il pellegrino o il viaggiatore non distratto, Gerusalemme non è città di costruzioni, sassi e pietre, ma di incontri, come io stessa ho più volte sperimentato, incontri animati da una singolare complicità tra le persone e provocati da singolari coincidenze. Anche oggi, nella nostra discesa dal Monte degli Ulivi, è stato così quando abbiamo bussato al monastero delle Benedettine francesi per portare dei saluti da conoscenze comuni e, pur non conoscendoci, ci hanno ricevuti con gioia, donandoci tempo e offrendoci un succo fresco: un gesto che nella calura di questi luoghi e di questi giorni, ridà senso pieno alla parola “benedizione”. Le pietre e gli edifici perdono quasi importanza e diventano solo segni di una più solida sostanza; non più corpi dalla rigidità cadaverica, acquistano vita e significato, diventando occasione di relazione, di dono, di sollievo.
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