Articolo: Le figlie di Agār e il lungo cammino alla ricerca dell'acqua

20/11/2012     Maria Brutti     4671

Introduzione

Scopo di questo lavoro è quello di dare un piccolo contributo alla riflessione sul dialogo interreligioso, visto secondo la prospettiva femminile. Essendo io stessa donna, è quest’ultimo un tema che mi ha interessato molto e mi ha colpito soprattutto per la varietà  e la complessità dei suoi aspetti. Per me, che ormai da diversi anni studio i testi biblici e mi interrogo sulle relazioni ebraico-cristiane, è stato naturale ricercare ancora nella Bibbia i fondamenti del dialogo interreligioso.  Data l’ampiezza dell’argomento, tuttavia, ho deciso di considerare particolarmente la relazione tra le religioni cosiddette abramitiche: se per l’ebraismo e il  cristianesimo infatti Abramo è il padre della fede; per la fede islamica, il nome “musulmano” viene da Abramo. Secondo il Corano, è musulmano” colui che si consegna con fiducia all’Unico Dio, come Abramo (Corano 5, 18). Il lavoro è diviso in tre parti: nella prima considero le interpretazioni del personaggio Agàr nelle tradizioni ebraica, cristiana e musulmana. Nella seconda riporto le testimonianze di donne ebree, cristiane e musulmane sulla propria esperienza religiosa e sul rapporto con le rispettive comunità di fede. Nella terza rivolgo uno sguardo generale alle diverse attitudini degli studi femministi e, più in particolare considero, attraverso alcuni esempi, il diverso approccio nella ricerca sui testi sacri da parte di donne ebree, cristiane e musulmane. Nella Conclusione offro una riflessione di carattere più personale.

I Parte:  Agàr come paradigma della relazione tra le fedi abramitiche

Con  modalità diverse nell’ampiezza e nella interpretazione del personaggio, Agàr è figura che appartiene all’immaginario e al simbolismo religioso delle religioni abramitiche. Considererò innanzi tutto e con maggiore estensione la tradizione narrativa presente nella Bibbia ebraica, sia perché è la tradizione più antica, sia perché costituisce lo sfondo alle successive interpretazioni. E’ anche quella a cui mi indirizza maggiormente il mio background di studi. 

1.1 Agar nella tradizione ebraica biblica e post-biblica

Agàr si incontra per la prima volta in Genesi 16, all’interno del ciclo di racconti incentrati sulle vicende di Abramo e della moglie Sara.  Viene definita come schiava, o meglio come “shiphā”, parola che indica la serva della moglie, di cui solo lei può disporre. In molti casi era la ragazza che i genitori avevano dato alla figlia in occasione del matrimonio.[1]

La narrazione biblica si sviluppa nei capitoli 16 e 21 del Libro della Genesi, attraverso i quali Agàr appare figura prima complementare, poi contrapposta a quella di Sara. Al centro del primo momento (Gen 16:1-6) è l’infertilità di Sara, la quale vede Agàr come soluzione al suo problema della mancanza di figli, facendola unire al marito Abramo. Il piano riesce e Agàr diventa “madre surrogata”[2] o concubina di Abramo. Tutto lo sviluppo della narrazione successiva si articola intorno all’opposizione Sara/Agàr, dove tuttavia Sara appare ancora protagonista dell’azione. Una volta che Agàr è rimasta incinta, si ingelosisce, si lamenta con Abramo di un supposto comportamento arrogante di Agàr nei suoi confronti e la maltratta. Agàr soffre, ma tace e non obietta nulla, né  di fronte alla richiesta di Sara di offrire il suo corpo al marito, e nemmeno quando Sara l’accusa di mostrare disprezzo nei suoi confronti (v. 16:4). Il silenzio di Agàr, di fronte alle parole di Sara e di fronte allo stesso silenzio di Abramo, che appare disinteressarsi di tutta la questione, diventa però sofferenza: per questo Agàr fugge.

Il secondo momento (Gen 16: 7-16) è costituito dall’incontro di Agàr con l’angelo del Signore:  “presso una sorgente d’acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur” (16: 7). Per mezzo del suo messaggero, il Dio di Israele parla alla donna egiziana con un ordine e una promessa. L’ordine è duro: “Ritorna dalla tua padrona e restale sottomessa” (v. 9); la promessa è quella di una discendenza sconfinata, di un figlio forte, coraggioso, indipendente, così come i suoi discendenti.[3]  Questa volta Agàr parla, ed esprime tutta la sua sofferenza al Dio che le ha parlato ma, attraverso le sue parole, possiamo cogliere soprattutto l’impatto che ha per lei l’incontro con il messaggero divino.[4]

v. 13: Agàr chiamò il Signore, che le aveva parlato:  «Tu sei il Dio della visione», perché diceva: «Qui dunque sono riuscita ancora a vedere Dio, dopo la mia visione?».

Il testo ebraico, difficile e forse corrotto, può essere interpretato in modi diversi. Nel v. 13, Agàr chiama il Dio che ha incontrato nella persona dell’angelo, « il Dio della visione», cioè «il Dio che mi ha visto nel momento del bisogno», ma la parte successiva del verso (13b) sembra aggiungere un’altra spiegazione: «ho visto Dio dopo che Egli mi ha visto», nel senso che: «ho incontrato Dio dopo che Egli mi ha visto (nella mia miseria)». Un’altra ricostruzione favorisce una lettura del testo ancora diversa: «ho visto Dio, e vivo ancora dopo averlo veduto».[5] Quest’ultima lettura è ripresa anche da Jeansonne: Dio ha visto Agàr; l’esperienza non l’ha consumata e lei vive ancora per ricevere il disegno di Dio per lei e per suo figlio. Agàr si è appropriata di questa esperienza e l’ha identificata “by her unique naming of God”. Ma c’è un altro aspetto: il Dio di Israele parla a una straniera rivelandosi a lei. Questa rivelazione crea un legame permanente con le persone che vivono nell’area del pozzo. Esso viene conosciuto come Beerlahairoi, il pozzo di Uno che vive e mi vede.[6]  

Il terzo momento significativo della storia di Agàr si trova in Gen 21: 8-20.[7] Dopo la nascita di Ismaele, Sara teme Agàr e suo figlio e chiede ad Abramo di mandarli via. Questa sembra essere anche la volontà di Dio che, invitando Abramo ad ascoltare le parole di Sara, conferma tuttavia la promessa che una grande nazione nascerà dal figlio della schiava (v. 13). Agàr viene così allontanata e, disorientata, si smarrisce nel deserto di Beersheba. Continua dunque la sua sofferenza che raggiunge il culmine quando rimane senza acqua e la paura per la sorte del figlio la porta a piangere e a lamentarsi. Di nuovo Dio le risponde e, di nuovo attraverso un suo messaggero, ripete la promessa: Ismaele vivrà, “io ne farò una grande nazione” (v. 18).  Come osserva ancora Jeansonne, in contrasto con gli eventi precedenti nei quali il narratore aveva enfatizzato la debolezza di Agàr, l’azione finale ne indica la forza. Agàr è inoltre l’unica donna nella Bibbia a scegliere una moglie per suo figlio. Scegliendo una donna dall’Egitto, Agàr  assicurerà la continuazione delle sue tradizioni, della sua cultura, dei suoi valori.[8]

Agàr è stata oggetto di riflessione anche da parte dell’ebraismo post-biblico.  Mi limito a segnalare alcuni elementi fra quelli che mi hanno più colpito e mi appaiono più legati al tema affrontato. Tra le fonti del periodo post-biblico, dal II sec. a.C. fino al II sec. d.C., il racconto più esteso è costituito da Flavio Giuseppe, storico ebreo del I sec. d.C. attraverso la sua rilettura della storia biblica presente in Antichità Giudaiche. Nella sua parafrasi di Gen 16, Giuseppe accentua alcuni aspetti negativi di Agàr: la sua insolenza, le sue arie da regina, rimproverate a lei anche dall’angelo del Signore  (Ant 1,187-190). La parafrasi di  Gen 21 contiene soprattutto una valutazione positiva di Abramo e di Sara, trascurando del tutto i problemi morali che sono inerenti al racconto biblico ed evitamdo di parlare del favore divino verso Agàr evidente nella narrazione di Genesi (Ant 1, 215-219).[9]

E’ questo del favore divino un tema invece sul quale si sono interrogate le fonti rabbiniche attraverso il midrash. Il primo di questi interrogativi è legato alla fertilità di Agàr: Come mai Agàr, una schiava egiziana concepisce prima di Sara, una donna ebrea, designata come matriarca del popolo ebraico? La letteratura rabbinica risponde alla domanda in due modi diversi e opposti tra loro: o accettando il legame tra fertilità e favore divino, presente anche nella tradizione biblica, o rifiutandolo.[10] Un altro particolare problema affrontato riguarda il legame particolare che, chiaramente evidenziato dai racconti biblici, Agàr ha con il Dio di Israele. Questo legame è visto sempre alla luce del confronto tra Sara e Agàr: mentre Agàr incontra gli angeli di Dio e comunica con Dio direttamente, Sara lo fa solo una volta e anche allora è Abramo ad essere il primo destinatario della Rivelazione.[11] Per i limiti imposti dal lavoro stesso, tralascio questi e ulteriori interessanti sviluppi propri della tradizione ebraica e mi volgo ora a considerare la tradizione cristiana sulla figura di Agàr attraverso l’interpretazione di Paolo di Tarso.

1.2 La re-interpretazione allegorica di Paolo nella Lettera ai Galati (4: 21-31)

Nella Lettera ai Galati, Paolo usa i racconti di Genesi 16 e 21 per trattare trattare il tema della libertà dalla Legge ebraica o Torah. In Gal 4:21-31 si trova l’unico riferimento ad Agàr (v. 24) del Nuovo Testamento; non troviamo nemmeno il nome di Sara, sebbene a lei il testo implicitamente si riferisca. Ma come sottolinea Russel,[12] ambedue le donne sono usate per rappresentare aspetti diversi dell’argomentazione di Paolo. Le due donne dunque non rappresentano più se stesse, ma diventano figure, una allegoria attraverso la quale Paolo raddoppia il rifiuto di Agàr. Se nella Bibbia ebraica ed anche in alcune riletture post-bibliche, Agàr era una schiava di Sara e, ad un certo punto, sembra diventare anche fonte di minaccia per Sara, nel Nuovo Testamento ella diventa una schiava della Torah e una minaccia alla libertà dei cristiani/gentili in Cristo.[13]

Il brano si apre con una domanda rivolta a quei cristiani che vogliono rimanere sotto l’osservanza della Legge giudaica: che cosa dice la Legge (la Torah, la Scrittura)? La testimonianza scritturistica che segue rimanda ad Abramo e ai suoi due figli, di cui si dice che uno è nato da una schiava secondo la carne e l’altro è nato da una donna ebrea secondo la promessa. Nei vv. 24-27 la vicenda delle due donne si colora di un nuovo e più profondo significato attraverso l’uso della tipologia: mentre Sara rappresenta il patto della promessa, simbolizzato dalla Gerusalemme celeste, Agàr rappresenta il patto della Legge data sul monte Sinai e praticato nella Gerusalemme “di ora”  (v. 25). Questa visione tipologica trasforma in modo paradossale le figure genesiache di Sara e di Agàr: Sara, la matriarca di Israele, diventa la libera madre dei cristiani, mentre Agàr, da schiava egiziana, si trasforma in immagine della Gerusalemme terrena e, quindi, indirettamente, diventa madre degli ebrei.

Dunque in Paolo la connotazione di Agàr è fortemente negativa, rivelatrice di un contrasto crescente tra cristiani provenienti dal paganesimo e cristiani provenienti dal giudaismo, ed anche, secondo alcuni, di un contrasto tra ebrei e cristiani. Una interpretazione che sembra creare una frattura tra mondo ebraico e cristiano.[14]

1.3 La rilettura di Agar nella tradizione islamica

Agàr non è mai espressamente nominata nel Corano, così come Sara, tuttavia la sua storia è ripresa in modo piuttosto dettagliato da Sahil Al-Bukhari.[15] La differenza di questa narrazione rispetto alla tradizione biblica riguarda, innanzi tutto, il personaggio Abramo che, rispetto al racconto di Gen 21: 8-14, non decide di allotanare Agàr e Ismaele in seguito alla gelosia di Sara, ma in seguito ad un ordine divino. Questa prospettiva, nel hadith, viene accolta pienamente anche da Sara. Come suggerisce Hassan, la figura di Agàr che emerge dalla tradizione di Sahil Al-Bukhari, è quella di una donna che si distingue per la fede eccezionale, l’amore, il coraggio, la decisione e la forza di carattere. Quando viene a sapere che è stato Dio ad ordinare ad Abramo di abbandonare lei e suo figlio nel deserto, Agàr accetta la sua situazione, senza parole di recriminazione per Abramo, forte nella fede che il suo Dio non la abbandonerà. Per salvare la vita del figlio, Agàr compirà sette volte il cammino tra Safa e Marwa in cerca di aiuto, finché l’arcangelo Gabriele apparirà e la guiderà alla sorgente di Zam-zam.[16] Lì Agàr non solo salverà il figlio, ma creerà il primo insediamento della tribù  di Jurhum; lì il figlio Ismaele costruirà la prima Casa di Dio alla Mecca. Agàr, una schiava nei racconti biblici, nella tradizione islamica consegue il  grado di dignità più alto, diventando non solo la madre di Ismaele, ma anche la madre di tutti gli Arabi e di tutti coloro che più tardi  saranno i seguaci del Profeta Muhammad, un discendente del Profeta Ismaele.[17]

Secondo Hibba Abugideiri, Agàr nella tradizione islamica è simbolo della virtù del taqwa, quella “God concsciousness” che la fa degna della missione divina di dare origine a una interà civiltà. Il suo cammino, ripetuto per sette volte e nato da un atto di amore materno e di religiosa devozione, sarebbe diventato uno dei cinque pilastri dell’Islam: il pellegrinaggio. La sua memoria diventerà parte della storia e del rituale islamico.[18]

1.4 Conflitto e coesistenza

Dallo studio, necessariamente per linee generali, sul personaggio Agàr nelle tradizioni delle tre religioni abramitiche, nascono due contrapposti interrogativi: Possiamo trovare qualcosa di comune nella caratterizzazione della figura di Agàr che permetta alle tre religioni di trovare un punto d’incontro? O possiamo constatare solo conflitti di letture diverse?

 L’interpretazione che, a mio parere, fa più difficoltà è  quella relativa alla mia fede religiosa, quella di Paolo. Colpisce soprattutto la caratterizzazione negativa di Agàr come schiava della Legge, della Torah e quindi in netta contrapposizione al mondo ebraico, mentre possono trovare qualche punto di convergenza, pure nell’alternanza di elementi positivi e negativi, le riletture ebraiche e musulmane.

Negli ultimi anni tuttavia, a partire dagli anni ’70, le intepretazioni femministe, di studiose ebree, cristiane e musulmane, hanno dato un notevole contributo alla ricerca. In particolare, Phyllis Trible, in un libro uscito nel 2006, sottolinea la varietà delle caratteristiche di Agàr nelle tradizioni del Libro della Genesi: è la prima donna della Bibbia a fuggire dall’oppressione; la prima schiava che fugge; la prima persona ad essere visitata da un messaggero divino; la prima donna a ricevere un annuncio e la sola a ricevere una promessa divina di discendenti; l’unica persona a dare il nome a Dio; la prima donna a generare un figlio; la prima madre surrogata; la prima schiava ad essere liberata; la prima moglie divorziata; il primo genitore single e la prima persona a piangere. Agàr “haunts the biblical narrative and its afterlife in ways that other characters do not”. Secondo Trible, le storie di Agàr e di Sara non sono terminate, come noi sappiamo e temiamo giornalmente. Tutti i figli e le figlie di Abramo, di Agàr e di Sara: ebrei, cristiani e musulmani,uomini e donne, trovano se stessi afflitti da iniquità e sofferenze da parte dei loro parenti, al di là della terza e quarta generazione.[19]

Ma al di là del valore strettamente familiare di queste storie, soprattutto la figura di Agàr può costituire un modello dell’incontro tra le religioni. Mi riferisco di nuovo alla caratterizzazione biblica, al momento in cui Agàr, provata nella sua umanità e nella fede, riceve la chiamata dell’angelo del Signore e ricnosce nel suo Dio il “Dio della visione” presso Beerlahairoi (Gen 16: 13-14). In questo stesso luogo abiterà più tardi il figlio di Abramo e di Sara, Isacco, dopo la morte del padre (Gen 25:11), mentre Ismaele andrà ad abitare a Shur, “di fronte a tutti i suoi fratelli” (Gen 25: 11). Dal racconto di Genesi, la relazione tra le famiglie di Agàr e di Sara non sembra essere, almeno temporaneamente, basata sulla inimicizia, ma fondata sulla pace. Una pace che si attua nel nome del Dio della visione.[20] Tuttavia la caratterizzazione allegorico-strumentale di Paolo introduce, nelle relazioni tra religione ebraica e la nuova religione cristiana, un elemento conflittuale, attraverso la contrapposizione negativa tra Agàr, la Gerusalemme terrena, e Sara, la Gerusalemme celeste.  Più in generale, la teologia femminista cristiana si è rivolta ad indagare con particolare attenzione la concezione teologica di Paolo, a partire da Elisabeth Schüssler Fiorenza, con diverse interpretazionie  e con diverse  sottolineature delle divisioni create dalla sua rilettura delle storie di Sara e di Agàr. Al di là della complessità di questo problema,[21] mi  piace concludere questa prima parte del lavoro con un’affermazione della studiosa ebrea Levine. Sottolineando l’incompletezza della storia di Sara e di Agàr, così che i loro caratteri rimangono aperti, a suo parere, “to allegorical interpretation and empathic reclamation”, Levine invita i figli e le figlie di Sara e di Agàr a lavorare insieme nella tradizione per il Dio comune.[22]

2. Donne ebree, cristiane e musulmane: Testimonianze

Donne ebree, cristiane e musulmane si incontrano oggi presso il pozzo di Lahairoi, simbolo della fede in un Dio Unico.  Ognuna di loro parla della propria esperienza religiosa, dell’incontro della propria fede, dei problemi che hanno dovuto affrontare nel rapporto con la propria comunità relgiosa.  Le ascolto, emotivamente coinvolta.

2.1 Donne ebree: tradizione e cambiamento

Blue Greenberg è una donna ebrea che appartine all’ebraismo ortodosso ma è anche attivista femminista. Dichiara adempiere con scrupolo alle mitzvot, i precetti che le derivano dall’osservanza della Torah. Definisce questa sua duplice scelta di vita come una “tensione creativa”, che la porta non ad abbandonare, ma ad entrare sempre più pienamente, pur senza trascurare le difficoltà, nella propria comunità di fede. Tuttavia, avverte, è necessario, quando si assumono “the tasks  of change and confrontation”,[23] tenere presenti alcune premesse: innanzi tutto bisogna muoversi dentro la difficile dialettica tra la consapevolezza che la storia e la sociologia, così come la tradizione, sono normative e possono essere usate come chiave interpretativa e l’affermazione che Torah e tradizione esistono per sé stesse, indipendenti dalla storia. Da qui la necessità di alcuni atteggiamenti: bilanciare cambiamento e continuità; imparare che è più facile distruggere che costruire. Pure se siamo giudici e  critici, dobbiamo sentire il nostro forte legame e il nostro impegno con la comunità e non la distanza e il disinteresse. Dobbiamo però sapere che ci sono momenti nella storia di una comunità di fede “where obedience through lack of pride is the greater sin, and unrestful rebellion is the greater merit”.[24] Greenberg si pone poi degli interrogativi: Che cosa significa confrontarsi con la tradizione, le fonti, i testi sacri? Come ci si può confrontare con la Torah, il Talmud, secoli di interpretazioni rabbiniche, strati di materiale haggadico e halakhico, secoli di vecchi concetti etici  e legali, codici autoritativi di legge e così via?  La risposta, a suo parere, si trova in un nuovo “yardstick”, una nuova unità di misura che è il principio base del femminismo: le donne sono uguali, create ugualmente ad immagine di Dio e dunque hanno uguali potenzialità, abilità e aspirazioni.[25]

2.2 Il conflittuale rapporto tra le donne cattoliche e la Chiesa

Anne Patrick Ware[26] considera l’evoluzione dei rapporti con la Chiesa Cattolica romana a partire dalla sua esperienza di Sister appartenente alla piccola comunità di Loretto, sorta nel Kentucky nel 1812.  Riesaminando le relazioni con gli ultimi pontefici, da Paolo VI a Giovanni Paolo II, ella individua, specie in quest’ultimo, aspetti conservativi nei confronti del problema “femminile” e, in particolare, rileva  l’assenza di una seria apertura verso le donne che, ancora oggi, sono ritenute necessarie tutt’al più come “ministri straordinari”.[27] Sister Ware vive in una comunità che ha deciso una revisione della propria vita sulla base dei principi femministi, considerati tuttavia non in modo acritico, e riconoscendo quindi da un lato le ingiustizie fatte alle donne, specie in campo economico, ma dall’altro interrogandosi sull’evoluzione negativa di certe forme di femminismo come il comportamento libertino, etc.[28] La dichiarazione del 1970 della priorità della persona sulle istituzioni, ha creato tensioni e incertezze all’interno della comunità, che trova però unita su questo comune convincimento: “we cannot love everyone’s ideas, but we are committed to love one another”.[29]

Un’altra cattolica, Rosemary Radford Ruether si interroga: “What is the special and unique calling of women in Christian Churches today?[30] La risposta è: “Essere testimoni in questi tempi contro modelli disumanizzanti di relazioni nella chiesa e nella società ed elevarsi alla visione del vangelo  di una nuovo umanità in una nuova società”.[31]  Tra i nuovi modelli nella Chiesa e nella società ai quali potrà contribuire l’azione della donna, una nuova concezione dei rapporti familiari, la possibilità di lavoro per le donne, la trasformazione della sessualità che abbia le sue radici in un mutuo rispetto e amore. E inoltre, ella aggiunge, l’apertura di tutti i ministeri della Chiesa alle donne e la trasformazione del ministero  del sacerdozio nel modello del Nuovo Testamento di mutuo servizio, piuttosto che di potere di alcuni sugli altri.[32]

2.3 Le donne musulmane e la nascista dei movimenti femministi

Riffat Hassan, donna musulmana, nata a Lahore, appartenente alla famiglia Saiyyad, discendente del profeta Muhammad, ricorda la sua fanciullezza e descrive la sua faticosa relazione con i genitori, la sua solitudine interiore. Negativo il suo rapporto con il padre, perché troppo tradizionalista e convinto dell’inferiorità delle donne rispetto agli uomini; negativo anche quello con la madre la quale, credendo fermamente nell’autonomia e nell’indipendenza delle donne, faceva però l’errore di considerare più importante le qualità della figlia che l’affetto verso di lei.[33]  Scrivere e leggere fu per Hassan, fin dalla sua fanciullezza,  l’unico modo di comunicare. Comprese presto che nella società patriarcale in cui era nata e nella quale le ragazze erano considerate come oggetti da dare o prendere, non aveva altra scelta se non lottare: per questo, all’età di dodici anni, si rifiutò di andare a studiare in una scuola femminile. Dopo il periodo di studio in Inghiterra, durante il quale conseguì il tiolo di “Doctor of Philosophy”, mentre insegnava nello stato americano di Oklama, le venne chiesto di tenere un seminario sulle donne in Islam. Fu questo l’inizio di “an Odyssean venture in self-understanding”.[34] Negli anni 1974-1983 sviluppò la sua ricerca  sulla interpretazione dei passi del Qur’an relativi alle donne dalla quale scaturì la sua convinzione, espressa in numerosi scritti, che nell’Islam ci sono tre assunti attraverso i quali è stata creata la superiorità degli uomini sulle donne, i quali non sono supportati dal testo del Qu’ran e sono anzi contrari agli insegnamenti dell’Islam.[35] L’attenzione verso questo problema ha cambiato la vita di Hassan che da allora ha continuato a diffondere le sue idee attraverso incontri e conferenze a sostegno dei diritti delle donne e a sostegno dei diritti umani.

3.  Agàr in cerca di “acqua”: lo studio delle scritture

Blue Greenberg, Rosemary Ruether, Riffat Hassan  sono alcune delle donne che, negli ultimi 40-50 anni, hanno contribuito allo sviluppo di una teologia femminista per le rispettive religioni. Come suggerisce Kathleen McGarvey, questo particolare approccio teologico ebbe inizio negli USA e in Europa negli anni ’60, durante la cosiddetta “second wave” del movimento femminista e venne seguito, negli anni successivi, da sviluppi accademici in altri paesi e religioni del mondo.[36] Non mi è certo possibile, in questo contesto elencare le forme e gli sviluppi delle diverse teologie femministe[37], ma vorrei soltanto soffermarmi su un aspetto particolare, che sento più congeniale alla mia esperienza di studio e di fede. Le testimonianze delle donne appartenenti alle religioni abramitiche e anche le diverse letture femministe sulla figura biblica di Agàr mi hanno colpito per la profondità della loro esperienza di ricerca sugli scritti sacri, pur nella diversità degli approcci. 

Come osserva ancora McGarvey, riferendosi alle donne cristiane  e musulmane, le donne sono rimaste fedeli alle Scritture, “taking a revisionist approach rather than a rejectionist one”, [38] il quale non rifiuta la religione e le Scritture, ma piuttosto la comune interpretazione o i comuni concetti teologici derivati da esse nella Chiesa o nella tradizione legale islamica. Si tratta di un approccio revisionista o liberazionista, in quanto esse cercano nei testi sacri la giustificazione di una trasformazione dell’ordine sociale e della lotta delle donne contro ogni forma di dominio.[39] La lettura femminista della Bibbia, che considera l’oppressione delle donne in termini di classe, genere e razza si focalizza spesso sui racconti biblici in un modo che si diversifica dalla lettura dominante. In questo senso, un modello positivo per tutte le donne è, ad esempio, come abbiamo già parzialmente visto, la figura di Agàr. Accenno solo ad alcune delle altre intepretazioni, che ci introducono ad una visione più ampia del problema. Nella interpretazione delle femministe afro-americane Agàr è la donna schiava che fu sfruttata a causa del razzismo ma di cui si prese cura Dio;  in quella delle donne latino-americane Agàr è una donna povera, oppressa, abbandonata e venduta alla quale Dio diede speranza. Nell’interpretazione delle donne africane, che ne sottolineano la situazione poligamica, Agàr è uno strumento a disposizione dei bisogni di Sara, un simbolo della lotta che nasce trale donne stesse ed è originata da ciò che la società ha stabilito per loro; in quella delle donne asiatiche è colei che è stat privata della propria identità, è il simbolo dell’esperienza delle donne e degli uomini del Terzo Mondo che sono vissuti sotto la dominazione coloniale e neo-coloniale. Ogni gruppo di donne, cioè, riscontra una analogia tra l’oppressione di Agàr e la propria situazione e dunque, nella loro lotta all’oppressione, imparano da lei.[40]

A mio parere, tuttavia, uno degli aspetti più interessanti della ricerca femminista è proprio quello che si propone di re-interpretare quelle tradizioni normative che hanno dato origine al ruolo subalterno della donna nella società. Mi riferisco, per questo discorso, a un esempio di approccio interpretativo sulla legge del divorzio, secondo la prospettiva di due donne: una ebrea e una musulmana..

3.2 La legge del divorzio  nella prospettiva femminsta ebraica e musulmana

Blue Greenberg[41] discute la legge ebraica sul divorzio. La Bibbia dice che un uomo che vuole divorziare da sua moglie deve scrivere una carta di divorzio (ketubah), metterla nelle mani della donna e mandarla via. Questa norma della Scrittura, a suo parere, può essere interpretata in due modi: o come espressione del sessismo della Bibbia e di una società maschile, patriarcale, dove l’iniziativa spettava solo agli uomini, oppure come un primo passo che tendeva a ridurre i diritti dell’uomo e, quindi, a proteggere le donne.[42] Greenberg ricorda poi le modifiche della legge avvenute in età rabbinica: la poligamia fu de facto e finalmente de jure eliminata; in molti casi l’uomo non poteva divorziare senza che la donna lo volesse; la ketubah si trasformò in un contratto che stabiliva una serie di condizioni economiche che tendevano a scoraggiare il divorzio e inoltre protesse  anche la donna sposata, specificando gli obblighi del marito verso di lei. I rabbini potevano costringere un uomo, per mezzo dell’uso di sanzioni, a garantire il divorzio a una donna che lo volesse. Tuttavia Greenberg ricorda che esistono ancora oggi problemi, soprattutto per il fatto che l’uomo ha ancora l’iniziativa e può rifiutare il divorzio per ragioni egoistiche. Ma, dice Greenberg, noi sappiamo, applicando la nostra nuova unità di misura (yardstick) allo studio delle fonti, che questo non è tutto quello che l’halachà voleva ottenere. La legge ebraica contiene i principi che forniscono alle donne un rimedio di fronte all’opposizione dell’uomo. Ci sono precedenti legali e le donne possono costruire su questo. Per esempio, se la legge talmudica consente alla donna di pagare colui che scrive la ketubah, gli halachisti di oggi devono interpretare la legge per autorizzare le donne a consegnare la ketubah per il divorzio ebraico. Nell’ebraismo ci sono stati progressi di carattere logico e storico nei diritti delle donne ed è necessario alimentarli scoprendone le strade nella letteratura religiosa legale.[43]   

Anche Amina Wadud[44] si pone il problema dei diritti delle donne derivanti dalla lettura e interpretazione del Corano.  Mi è sembrata di particolare interesse una sua precisazioneriguardo alla sua particolare metodologia di ricerca. La ripropongo, in quanto la ritengo preliminare al discorso successivo: “My concerns for what the Qur’an says, how it says it, what is said about the Qur’an, and who is doing the saying, have been supplemented by a recent concern over what is left unsaid: the ellipses and silences”.[45]

    Wadud osseva come numerosi versi del Corano siano stati spesso usati per sostenere la pretesa della superiorità dell’uomo sulla donna. Ritiene perciò necessario, per approfondire il problema di riesaminare alcuni termini particolarmente significativi: tra questi, mi riferisco soltanto alla riflessione in merito alla parola darajat, ‘step, degree, or level’.[46]

Leggiamo in Cor 2:28:

Le donne divorziate attendano, ponendosi da parte, per tre periodi mestruali. E non è obbbligo per loro che esse nascondano ciò che Allah ha creato nel loro ventre, se esse credono in Allah e nell’Ultimo Giorno. E sarebbe meglio che i loro mariti le riprendessero in questo stato, se esse desiderano una riconciliazione. E (i diritti) dovuti alle donne sono simili ai diritti contro di loro riguardo al ma’ruf e un uomo ha un darajah (grado) superiore a loro. Allah è potente, saggio.”[47]

Wadud rileva che questo verso è stato compreso nel senso che un darajah (grado) esiste tra tutti gli uomini e tutte le donne in ogni contesto. Ma qui la discussione si riferisce al divorzio, a proposito del quale nel Corano il vantaggio che gli uomini hanno è di poter pronunciare il divorzio contro le loro mogli senza arbitrato o sentenza, mantre alle donne il divorzio è accordato solo dopo l’intervento di una autorità (per esempio un giudice). Riguardo poi all’idea espressa dal termine darajah, Wadud osserva che attribuire un valore illimitato a un genere sopra l’altro contraddice l’uguaglianza stabilita nel Corano riguardo all’individuo: ogni nafs (persona, singolo) dovrà avere secondo ciò che merita. Tuttavia il verso sembra presumere una società che opera in modo gerarchico e che pone l’uomo al grado superiore. Wadud si sofferma allora sull’espressione:“(i diritti) dovuti alle donne sono simili ai diritti contro di loro riguardo al ma’ruf”” per chiarire il significato di quest’ultimo termine. Si tratta di parola che esiste altrove nel  Corano riguardo al trattamento delle donne e che indica ciò che è ovvio, ben conosciuto, convenzionalmente accettato, ciò che è basato su principi di equità.[48] Nel verso 2:228, ma’ruf precede l’affermazione del darajah e questo, per Wadud, starebbe ad indicare che la base per un trattamento giusto è convenuta nella società. Quindi i diritti degli uomini e delle donne sono gli stessi.[49]

   Rimane però il problema della modalità del divorzio, dove l’uomo ha un darajah o un vantaggio sulla donna. Wadud osserva come questo sia oggetto di attenzione da parte delle riforme nella moderna legge islamica con soluzioni diverse: con l’introduzione di un arbitro anche per l’uomo o con la rinuncia di questi privilegi. Ormai, ella dice, pochi uomini usano questo privilegio allo scopo di raggiungere una soluzione più favorevole ad ambedue. Inoltre c’è da considerare l’evoluzione dei matrimoni. Le donne da tempo ormai non sono più i soggetti del matrimonio, ma partners a pieno diritto. Soprattutto ciò che è importante e sottolinea il Corano è una riconciliazione o una separazione mutua e in pace.[50]

Conclusione: Alla comune ricerca del “Dio della visione”

Tuttavia, la ricerca delle Scritture ha un senso ancora più profondo per le donne delle religioni abramitiche.  Un senso che, pur nella propria individualità religiosa, bene esprime Blue Greenberg. Per lei, il confronto con le scritture è una esperienza religiosa, un compito “santo” in sé stesso che la tiene unita a Dio e al popolo ebraico. L’esperienza religiosa di questa donna ebrea e il suo rapportarsi alla comunità mi hanno profondamente colpito e coinvolto. Così come il ricordare che per l’ebraismo, lo studio è preghiera, e questa non è solo una prescrizione, ma piuttosto “it is a very real description of  humans emotions involved in encountering sacred literature, no matter how critical the intellectual enterprise may be”.[51] Per Greenberg è la legge di Dio è sempre stata un modo attraverso il quale Dio le parla e lei parla a Dio; reinterpretarla è per lei una delle più grandi sfide: trovare modo di fare passi avanti nella ispirazione e nel timore.[52]     

Questa ispirazione e timore mi portano di nuovo alla figura di Agàr davanti al Dio della visione, ma  in me, donna cristiana e che ha sete delle scritture, rievoca anche direttamente la coinvolgente immagine di un’altra donna, la samaritana del vangelo di Giovanni. Di nuovo una donna straniera alla quale, ancora presso un pozzo, si rivela Gesù di Nazareth, come Colui che è portatore di una vita nuova, una “vita eterna”. Vita che è data attraverso l’ acqua (Gv 4: 7-15).[53]   

    Le figlie di Agàr, le donne ebree, cristiane e musulmane sono dunque giunte all’”acqua”, ognuna nella rispettiva tradizione: Gesù stesso nella prospettiva cristina; la Parola di Dio al Sinai, la Torah  in quella  ebraica e il Corano nella tradizione musulmana.  Ma tutte con un elemento che le accomuna: è il desiderio di un Dio Unico al quale riferirsi durante il cammino dell’esistenza: il Dio della visione di Agàr, il Dio che hanno incontrato nelle Scritture, il Dio che è Padre e Madre, che vive, le libera e le sostiene e nel lungo cammino verso l’acqua. Un Dio che crea un legame permanente tra loro e con le persone che vivono nell’area del pozzo. 

Concludo con questo pensiero: nel rispetto della propria identità religiosa e della propria cultura, le figlie di Abramo e di Agàr in nome della comune fede al Dio della visione, il Dio che vede e ascolta, devono e possono contribuire a portare la giustizia e la pace alla famiglia di Abramo. Dal cammino verso l’acqua, da tempo ormai è iniziato un altro cammino…

 



[1] Vedi C. Westermann, Genesi. Commentario, ed. Piemme, Casale Monferrato 1998, p.133. Come osserva, in una prospettiva di lettura femminista,  Jeansonne, la storia di Agàr è il ritratto di una donna che ha poco controllo sul suo destino  e alla quale è richiesto di obbedire ai comandi della sua padrona. Una straniera nella terra di Canaan, la quale vive come una serva nella casa dei due nuovi arrivati nel paese, Sara e Abramo, vedi S.P.Jeansonne, The women of Genesis. From Sarah to Potiphair’s wife, Fortress Press, Minneapolis 1990, p. 43.

[2] Il fatto ritorna oggi  quanto mai attuale, in quanto costituisce una delle forme della pratica della fecondazione assistita.

[3] Vedi Gb 39: 5-8, dove i discendenti di Ismaele, così come Ismaele nel Libro della Genesi (v. 16:12), sono paragonati a un onagro, a un asino selvatico.

[4]Jeansonne, The Women of Genesis, p. 46.

[5] Westermann, Genesi, p. 136.

[6]Jeansonne,The Women of Genesis, p. 47. Phyllis Trible sottolinea nell’episodio di Gen 19: 9-12 gli aspetti contrastanti di desolazione e consolazione presenti nelle parole del messaggero divino. Desolazione, poiché il destino di sofferenza di Agàr è confermato sia dal nome del figlio, Ismaele: “poché Dio ha ascoltato la tua afflizione” che nella descrizione di Ismaele stesso. Uomo libero e forte, vivrà però in perpetuo contrasto con tutti i suoi fratelli. Consolazione, poiché attraverso la promessa di una discendenza innumerevole, ad Agàr viene accordato uno status speciale, quello di essere l’unica donna nella Bibbia a ricevere tale promessa, Nella denominazione di Dio come Dio della visione, come Dio che vede ed è visto, “Hagar’s insights move from life under affliction to life after theofany”, vedi Ph. Trible –L.H. Russel eds., Hagar, Sarah anf Their Children. Jewish, Christian and Muslim Perspectives, Louisville 2006, p. 41, ma vedi anche p. 40.

[7] Dopo la nascita di Ismaele (16:15-16), nei successivi 14 anni, la narrazione presenta tre eventi importanti:la promessa di un figlio fatta da Dio ad Abramo e a Sara; la rottura tra Abramo e il nipote Lot; la vicenda di Abimelech e Sara.

[8]The Woman of Genesis, p. 52.

[9]Vedi, per questo problema, la trattazione che ne fanno A. Reinhartz - M. Simma-Walfish, ‘Conflict and Coexistence in Jewish Interpretation’, in Hagar, Sarah and Their Children, pp. 101-125. Sarebbe molto interesante ricercare la motivazione di queste differenze, ma ovviamente in questo ambito non è possibile.

[10] Vedi dettagliata argomentazione e testi in ‘Conflict and Coexistence in Jewish Interpretation’, pp. 107-108.

[11]Vedi ‘Conflict and Coexistence in Jewish Interpretation’, p. 111.

[12]‘Twists and Turns in Paul’s Allegory’, in Hagar, Sarah and Their Children, p. 71.

[13]‘Twists and Turns in Paul’s Allegory’, p.72.

[14]‘Twists and Turns in Paul’s Allegory’, p. 74. Riguardo alle implicazioni di questa concezione di Paolo, definita “this retoric of rejection”, vedi ancora le pp. 74-92.   

[15] Vedi R. Hassan, ‘Islamic Agar and His Family’, in Hagar, Sarah and Their Children, pp. 152-153, dove Hassan si riferisce a tradizioni nel hadith, libro 15:9, chiamato Anbyia (Profeti), numero 583.

[16] I musulmani ritengono che le acque di questa sorgente abbiamo poteri medicinali e miracolosi.

[17]Hassan, ‘Islamic Agar and His Family’, p. 154.

[18]H. Abugideiri, ‘Hagar: A Historical Model for “Gender Jihad”, in  Hagar, Sarah and Their Children , pp. 85-88.

[19]‘Ominous Beginnings for a Promise of Blessing’, in Hagar, Sarah and Their Children , p. 59 e 61.

[20]  Vedi A.J. Levine, ‘Setting at Beer-lahai-roi’, in Y.Y. Haddad – J.L. Esposito eds., Daughters of Abraham. Feminist Thought in Judaism, Christianity and Islam, University Press of Florida, Gainesville 2001, p. 25.

[21] E’ problema che in questo contesto non mi è possibile affrontare per la sua ampiezza, vedi per ora soltanto’Twins and Turns in Paul’s Allegory’, in Hagar, Sarah and Their Children, pp. 83-92.

[22]‘Twins and Turns in Paul’s Allegory’, p. 27.

[23]Vedi Blue Greenberg, ‘Confrontation and Change: Women and the Jewish Tradition’, in V. Ramey Mollenkott, Women of Faith in Dialogue, Crossroad Publishing Company, New York, 1987, p. 18.

[24]‘Confrontation and Change: Women and the Jewish Tradition’, p. 19.

[25]  Ibidem, p.  p. 21. Tra i problemi che riguardano il rapporto della tradizione con le donne, Green considera la legge ebraica sul divorzio. Ma al di là di questa questione, ella ritiene che cinque aree abbiano soprattutto “need of improvement, each one significant: learning, leardership, liturgy, legal status, and language”.

[26]‘Change and Confrontation within the Roman Catholic Church’, in  Women of Faith in Dialogue, pp. 29-41.

[27] Ibidem, p. 31-32.

[28] Ibidem, p.  34.

[29]  Ibidem, p. 41.

[30]Vedi ‘The Call of Women in the Church Today’, in Women of Faith in Dialogue, p. 77.

[31]‘The Call of Women in the Church Today’, in Women of Faith in Dialogue, p. 79.

[32]‘The Call of Women in the Church Today’, pp. 86-88.

[33]A. Braudeed., Transforming the Faiths of our Fathers. Women who changed American Religion, Palgrave McMillan, 2004, pp. 173-179.

[34]Transforming the Faiths of our Fathers, p. 182.

[35]Transforming the Faiths of our Fathers, p.  186 dove Hassan elenca i tre assunti  come: 1) La creazione primaria di Dio è l’uomo e non la donna, che è dunque ontologicamente secondaria; 2) Le donne sono le prime responsabili della “caduta” dell’uomo e perciò tutte le figlie di Eva debbono essere guardate con sospetto e diffidenza; 3) Le donne non sono state create solo dall’uomo, ma per l’uomo, cosa che fa la loro esistenza puramente strumentale e non fondamentale.

[36]K.A.M. McGarvey, The implications of Muslim and Christian Feminist Discourse for Interreligious Dialogue. Case Study of Northern Nigeria, Dissertatio ad Doctoratum in Facultate Missiologiae, Pontificiae Universitatis Gregorianae, Romae 2007, p. 80 nota 16dove osserva che una forma di pensiero femminista in Islam si era già sviluppata fin dall’inizio del 20° secolo, sostenuta da studiosi musulmani modernisti, i quali pensavano di rendere gli insegnamenti religiosi compatibili con i cambiamenti sociali che introducevano una maggiore partecipazione delle donne alla vita pubblica. Dal 1970, e ancora di più dal 1990, le donne hanno cominciato a contribuire a questi dibattiti tra studiosi, reinterpretando gli insegnamenti religiosi delle donne sul Qur’an.

[37] La ricerca femminista ha avuto ed ha altri sviluppi che vanno al di là dei testi ed elaborano una particolare teologia. Quella delle donne cristiane ha la sua espressione nella“cristologia femminista”.  La teologa femminista Ruether osserva come, per più di 2000 anni di storia, la chiesa cristiana abbia non solo tenuto lontano le donne dal ministeor ordinario, ma anche dallo studio della teologia e dei ruoli pubblici di teologo e predicatore. Questa esclusione è dipesa da fattori storici che si richiamano ad una cultura di tipo patriarcale, che trova la sua espressione ancora nel Nuovo Testamento (vedi 1 Tm 2:12) nell’immagine di Dio e di Cristo, così come nei testi dell’Antico Testamento e nella loro interpretazione successiva. Ad esempio, Dio è non solo immaginato quasi esclusivamente in termini maschili, ma anche in termini di ruoli di potere patriarcali, come padre-patriarca, re, guerriero e signore. L’insistenza classica cristiana-cattolica sulla necessità ontologica della “maleness” di Cristo riassume le tendenze patriarcali del sistema teologico: “Christ must be male, because, in some sense, God as both Father and Son is male, and so only a human male can represent God”. Vedi R. Radford Ruether, ‘Christian Feminist Theology. History and Future’, p. 67, ma vedi anche pp. 65-66. Un particolare aspetto di questa teologia è quello che ha elaborato la concezione di Cristo come Sophìa, vedi  in particolare E. Schüssler Fiorenza, Gesù Figlio di Miriam, Profeta di Sophìa. Questioni critiche di cristologia femminista, ed. Claudiana, Torino 1996, pp. 181-222.

[38]The implications of Muslim and Christian Feminist Discourse for Interreligious Dialogue, p. 87.

[39]Ibidem, pp. 87-88.

[40] Ibidem, p. 88 nota 42.

[41]‘Women and the Jewish Tradition’, p. 21.

[42]Vedi ‘Women and the Jewish Tradition’, p. 22 dove Greenberg osserva come la legge della ketubah fosse una piccola protezione per le donne, ma comunque un passo avanti rispetto alla preesistente esistenza di una legge del divorzio solo orale.

[43]‘Women and the Jewish Tradition’, p. 22-23.

[44] E’ una delle maggiori studiose musulmane. Nel suo approccio al testo sacro, ella distingue tra il “megatext” che ha una rilevanza culturale universale e il “prior text”, che va contestualizzato e introduce distinzioni di genere. Vedi A. Wadud, Qur’an and Woman . Re-reading the Sacred Texts from a Woman’s Perspective, New York 1999, pp. 1-10. Vedi anche McGarvey, par. 3.3, p. 14.

[45]Qur’an and the Woman, p. xiii. Queste affermazioni mi richiamano a certi procedimenti propri dell’esegesi rabbinica, in particolare al principio  della molteplicità dei sensi, vedi B. Carucci Viterbi, ‘Le regole ermeneutiche per l’intepretazione del testo biblico: Torah scritta e Torah orale’ in S.J. Sierra, La lettura ebraica delle Scritture, EDB ed., Bologna 1995, pp. 80-81.

[46]Qur’an and the Woman, p. 65.

[47] Traduzione libera da  Qur’an and the Woman, p. 68.

[48]Qur’an and the Woman, p. 69.

[49] Ibidem.

[50]Qur’an and the Woman, pp. 79-80

[51]Idem.

[52]A. Braude ., Transforming the Faiths of our Fathers. Women who changed American Religion, Palgrave Macmillan, New York, 2004, p. 251.

[53] E’ singolare il fatto che in una interpretazione rabbinica (Mekilta su Es15.22) l’acqua è identificata con le parole della Torah, vedi A.C. Avril-P. Lenhardt, La lettura ebraica della Scrittura, ed. Qiqajon, 1989, p. 79.