Articolo: Novantanove pecore e un pastore (Lc 15,1-7)

11/11/2019     Ombretta Pisano     395

Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: "Costui accoglie i peccatori e mangia con loro". 3 Ed egli disse loro questa parabola:4 "Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5 Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta". 7 Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Gesù era decisamente un personaggio affascinante: piaceva a tutti, ascoltarlo, e il fascino della sua parola sapiente, sostanziosa e profonda, veniva colto anche dai farisei e dagli scribi, che lo ascoltavano spesso anche loro. Come però a volte succede quando ci si trova davanti ad un personaggio che si ammira, può nascere la gelosia, quell’atteggiamento del volere solo per sè ciò che si ammira. Una gelosia che anticipa, in questo racconto, quella di cui Gesù parla subito dopo, nella terza delle parabole della misericordia di questo capitolo 15 di Luca, la gelosia del figlio maggiore – che l’affetto filiale aveva fatto restare sempre accanto al padre - per il minore che invece lo ha lasciato sperperando la sua eredità.

È proprio per gli scribi e i farisei che Gesù racconta questa parabola, per questa loro gelosia che è anche zelo religioso: mangiare con pubblicani e peccatori non è ammissibile per un rabbi, che viene reso impuro da questo tipo di contatto. La mormorazione che troviamo qui ha come retroterra una domanda sulla persona di Gesù: perché un personaggio di tale spessore e sapienza, e quindi vicino a Dio, si accosta ai peccatori e, facendo questo, mostra di preferire di prendere le distanze da “noi”, che abbiamo a cuore la volontà di Dio e abbiamo passato la vita ad osservarla? Chi è veramente? La parabola si gioca tutta su questo retroterra: porta in luce la figura centrale di Gesù e il suo comportamento; tira in ballo il gruppo dei “giusti”, e la necessità della gioia condivisa.

 

Pastori e pecore

L’immagine pastorale evocata dalla parabola non è nuova. La Bibbia ricorre più volte a questo simbolismo, che evoca il rapporto tra Israele e le sue guide e Dio stesso. Tra i profeti, Geremia (c. 23) ed Ezechiele (c. 34) vi ricorrono in modo molto prossimo al nostro testo, Ezechiele in particolare. Questo profeta, che è un sacerdote, è costretto all’esilio in Babilonia insieme al resto del suo popolo nel 587 aC. Nella terra dell'esilio riceve la sua vocazione profetica ed è incaricato da Dio di accusare i capi del popolo: Israele è come un gregge disperso a causa dell’incuria e della cecità delle sue guide. Queste, che hanno tradito il loro compito, saranno rimpiazzate da Dio stesso, che pascolerà le sue pecore in pascoli ricchi e nominerà un pastore, un nuovo Davide, che saprà farlo come lui stesso. Ogni pecora dispersa sarà ricondotta indietro (letteralmente, “le farò fare un’inversione”, viene usato il verbo shub, impropriamente tradotto con “ovile”, un verbo che indica il cambiamento della sorte (si veda ad es, in Geremia 32,44). Il Signore stabilirà quindi un’alleanza nuova: farà tornare il suo popolo nella sua terra, a casa sua, e farà diventare ogni luogo, un luogo ospitale e tranquillo per il suo gregge, anche il deserto e i boschi selvatici. Abitare tranquilli nel deserto è, insieme al ritorno a casa, il segno escatologico di un rapporto rinnovato con il Signore.

 

Novantanove pecore nel deserto

La parabola di Lc 15, che intende spiegare il comportamento di Gesù, ci mette davanti ad un pastore che non intende perdere neanche una pecora del suo pure numeroso gregge. La scena è conosciuta e molto comune, all’epoca ancora più di oggi: un pastore conduce il suo gregge al pascolo. Anche in Galilea, che è una regione più verde rispetto al resto di Israele, le colline dove si trovano pascoli sono lontane dall’essere rigogliose, e per questo solo il pastore sa dove trovare erba ed acqua. In questo vagare tra le colline, succede quello che tutti i pastori temono: al momento della conta nella sosta, si accorge che manca una pecora. Sa perfettamente di quale pecora si tratta, e torna indietro sui suoi passi cercandola, anche se deve lasciare le altre lì dove si trovano, en te eremo. Come questo, diversi dettagli della parabola ci lasciano perplessi: che pastore è mai questo? Vale la pena “abbandonare” un gregge intero per una sola pecora? Non si mettono a rischio tutte le altre? Lascia perplessi anche il fatto che, dopo il ritrovamento, la pecora viene condotta “a casa”, e non insieme alle altre, che pure hanno ancora bisogno del pastore per tornare a loro volta. Non è un dettaglio senza significato: una parabola insiste solo sui dettagli utili a trasmettere l’insegnamento e tralascia quelli che, per la logica della narrazione, ci aspetteremmo di trovare; quindi, il particolare delle pecore lasciate en te eremo, nel deserto, o all’addiaccio, ha una sua importanza. Nella Bibbia il “deserto” ha una valenza simbolica vastissima: oltre a indicare l’addiaccio, è il luogo della tentazione, il luogo della peregrinazione di Israele verso la terra, ma anche un luogo di fuga, di rifugio. Si tratta, quindi, di una situazione di temporanea privazione dentro la quale, restando uniti, si è protetti e si può vivere. Dai profeti sappiamo che pure il deserto può diventare una terra ospitale nel tempo dell’Alleanza rinnovata.

A questo gregge “abbandonato” si allude nuovamente solo al termine della parabola: Gesù lo riferisce chiaramente ai “giusti che non hanno bisogno di ritornare”. Questi, se lasciati nel deserto, lo sono per volontà del pastore, che è volontà di cura, e possono stare tranquilli perché sono comunque al sicuro. Lo sono perché sono tutti insieme, mentre ogni peccatore è solo. Nel deserto, solo l’unione consente di sopravvivere. Questi “giusti” sono al sicuro non perché sono forti, ma perché hanno a cuore la presenza e partecipazione di tutti alla vita del gregge, il che è causa della loro gioia di vedere tornare chi se ne era allontanato. Novantanove giusti che vivono così, anche nel deserto sono già al sicuro.

 

La pecora perduta è condotta a casa

Ma nella nostra parabola la pecora ritrovata viene portata direttamente a casa, e non insieme al resto del gregge. La pecora perduta “torna”, fa una conversione. La casa del pastore è il luogo dove si trovano amici e vicini con cui condividere la gioia del ritrovamento. Si apre, qui, uno spiraglio escatologico della parabola, che allude a quella casa che è il Regno di Dio, abitato da una moltitudine in festa (“nel cielo”). Se la parabola fosse finita con la ricollocazione della pecora perduta con le altre, saremmo davanti ad un insegnamento morale. In realtà, la parabola dice chi è Gesù e perché mangia con i peccatori e ipubblicani. Il fatto che la pecora venga portata a casa permette di accorgersi della portata escatologica dell’azione di questo pastore, il quale non ha il solo compito di mettere al sicuro una pecora che rischia di morire nella solitudine e nell’inedia, ma quello di salvarla definitivamente, di portarla “a casa”. Qui Gesù parla di una salvezza definitiva, e si rivela “quel” pastore davidico di cui parla la profezia di Ezechiele. Si tratta di un pastore che non agisce solo in nome di una giustizia terrena, ma che ha a che fare con la salvezza escatologica e con la partecipazione alla gioia del regno di Dio. Una gioia specchiata in quella del pastore e anche della donna che ritrova il soldo perduto della parabola seguente, come la gioia del padre del figlio ritornato e che dovrebbe contagiare anche il figlio che era rimasto sempre con lui.

 

Il pastore venuto per riempire la casa di Dio

Nell'ottica di questa parabola i grandi numeri non contano. Ciò che viene a mancare al pastore e alla donna che spazza è, insieme, essenziale e gratuito. Il pastore ha altre 99 pecore, la donna ha altre nove monete, eppure senza una di queste il numero resta incompleto. Il comportamento del pastore e della donna indica che nessuno è senza valore e merita di essere lasciato indietro. La ricerca del pastore ha di mira la completezza. C’è l’abbondanza, si, e rispetto a coloro che si perdono i “giusti” sono tanti, ma non è ancora abbastanza: l’abbondanza deve diventare completezza. Troviamo qualcosa di simile nella parabola di quel banchetto, per offrire il quale il Servo viene inviato fuori a chiamare gli invitati, che rifiutano, e poi chiunque si trovi nelle strade perché la sala, in cui c’è ancora posto, si riempia. Ebbene, l’unica pecora è importante perché senza di lei la sala del banchetto escatologico non sarebbe piena.

Si vede, qui, il dislivello tra la mormorazione dei farisei e degli scribi, che è tutta terrena, fatta di gelosia, di scrupolo per una legge di purità che lascia fuori chi non sa starle dietro, e questa realtà immensa che è il Regno di Dio. Gesù porta alla luce questo dislivello. Egli è il pastore inviato a cercare quelli senza i quali la “sala” non sarebbe riempita in tutta la sua infinita capacità.  Con la parabola della pecora condotta a casa, Gesù parla ai farisei, agli scribi, e al resto delle pecore lasciate nel deserto.

La gioia, con cui Il brano finisce, è la componente più importante del racconto. Dai giusti ci si attende questa, insieme alla nostalgia per chi è ancora perduto e per il pastore, che deve tornare a prenderle. La mormorazione smaschera l'insufficienza della pretesa giustizia.