Articolo: Alcune note in merito all’articolo di M. Naro (RivBib 1 (2012), 7-31))

27/11/2012     Maria Brutti     4666

Come si legge nell’editoriale del n. 1 del 2012,  Rivista Biblica, l’organo ufficiale dell’Associazione Biblica italiana, in occasione della ricorrenza dei sessant’anni della sua nascita, ha proposto quattro articoli sul tema “Scritture ebraiche e Antico Testamento”. Tema certamente interessante, che come dice lo stesso editoriale, pure se ampiamente trattato, lascia ancora tanti “punti oscuri e irrisolti”.[1]

Tuttavia, la pubblicazione del primo articolo “Lo scriba divenuto discepolo. Tra Primo e Antico Testamento: stato di una questione biblico teologica" (pp. 7-31) a cura del teologo Massimo Naro, suscita qualche perplessità riguardo alla reale possibilità di “illuminare” anzi, in certi casi, presenta una visione dei problemi trattati che appare dimenticare i quasi 50 anni di ricerche e di studio dal Concilio ad oggi. In queste brevi note, al di là dell’intenzione polemica, mi riferirò soprattutto al fervore di studi e di ricerca teologica che si è sviluppato, in ambito internazionale, tra alcuni teologi di matrice cattolica, cristiana ed ebraica,[2] nell’ambito del dialogo interreligioso. Dal momento però che, tuttavia, è proprio questo ambito che l’autore dell’articolo sembra ritenere responsabile di alcuni mali della teologia biblica e, più in generale, della cristologia, fino a parlare di un suo “esautoramento esegetico”, mi propongo di dimostrare come tale “esautoramento” non corrisponda all’attualità della ricerca biblico-teologica di questi ultimi anni in campo interreligioso.

Il punto di partenza dell’articolo è indicato come la sfida che l’esegesi e la teologia biblica hanno dovuto affrontare negli ultimi venti anni, e cioè: “il dibattito sulla ridenominazione delle due parti principali che costituiscono la Bibbia cristiana”  avviato nel 1991 da una proposta di Erich Zenger”, secondo il quale, più che di Antico Testamento, si sarebbe dovuto parlare di Primo e Secondo Testamento[3]. Questo dibattito viene considerato dall’autore come un vero “crocevia disciplinare”, in quanto avrebbe fortemente condizionato l’evoluzione della teologia e della cristologia, a causa della non corretta interazione tra esegesi e teologia (p. 8). Lo sviluppo della teologia del pluralismo religioso, l’influsso della teologia ebraica post-Autschwitz  e la sua influenza sul dialogo interreligioso ebraico-cristiano avrebbero originato inoltre il prevalere del  teocentrismo sul cristocentrismo.

Tuttavia, in questa analisi, l’autore sorvola o forse dà ormai per scontati alcuni elementi di particolare importanza. Il primo riguarda il rapporto e il significato più profondo che la Shoah ha avuto nel ripensamento cattolico  e nella successiva elaborazione di nuove teologie. Nel 1965, Nostra Aetate aveva affermato la necessità di promuovere tra ebrei e cristiani la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo” (nr.4). I documenti del post-concilio hanno ripetuto questa esigenza; cito solo  “Noi ricordiamo”, pubblicato nel 1998 a cura della Pontificia Commissione per i rapporti con l’ebraismo, allora presieduta dal card. Cassidy. Nella lettera di apertura, che costituisce in qualche modo una legittimazione del documento stesso,  il Pontefice Giovanni Paolo II ricorda le sofferenze del popolo ebraico durante la Shoah ed invita i cristiani, “ad esaminarsi sulla responsabilità che anch'essi hanno per i mali del nostro tempo”.

Ma della questione viene sottolineata anche la rilevanza teologica: nella parte III il documento, considerando  l'influsso di “certe erronee interpretazioni del Nuovo Testamento concernenti il popolo ebraico nel suo insieme”. riporta le parole di Giovanni Paolo II del Discorso ai partecipanti all'incontro di studio su « Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano » (31 ottobre 1997):  « Nel mondo cristiano — non dico da parte della Chiesa in quanto tale — interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebreo e la sua presunta colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo ».

L’attenzione è dunque rivolta non solo dunque al riconoscimento della sofferenza del popolo ebraico, ma anche alla responsabilità e ad  errori anche teologici da parte dei cristiani. E’ in questa linea che si deve considerare la proposta di Zenger, riportata dall’autore “ di considerare il Primo Testamento come libro autentico degli ebrei” (p. 12). Una scelta però che non vuole indicare, come dice Naro, una equiparazione della “precedenza storica alla priorità teologica”, ma che esprime l’esigenza di considerare l’Antico o Primo Testamento come un libro aperto ad una continuazione della rivelazione. Per gli ebrei, questa continuazione è espressa nella Torah orale, per i cristiani nel Nuovo Testamento (Zenger, p. 160).

Per Zenger, se era legittimo che i cristiani leggessero la Bibbia ebraica come il loro Antico Testamento, vedendo nel Nuovo la sua prosecuzione/compimento, sul piano teologico era “ riduttivo e sbagliato” supporre che l’Antico Testamento, affidato all’antico Israele, avesse l’unica funzione di anticipare Cristo e il Nuovo Testamento (p. 163). Sempre  Zenger riconosceva la difficoltà da parte della teologia cristiana e del magistero ecclesiastico a riconoscere “questa verità biblica rimossa da secoli”, ma nello stesso tempo si dichiarava sicuro che il cambio di mentalità fosse “ormai avviato” (p. 160).

Al di là della sostituzione della denominazione Antico in Primo Testamento, che già Zenger riteneva non del tutto soddisfacente pure se preferibile (p. 173), il problema centrale è dunque nel rapporto ebraismo-cristianesimo, affermazione sostenuta anche da Naro. Tuttavia è il significato di questa affermazione  che ha assunto oggi contenuti nuovi anche nella elaborazione teologica. Nel senso sopra indicato da Zenger però, dal 1991 ad oggi la posizione della teologia cattolica  ha avuto una notevole evoluzione. In particolare alcuni documenti ufficiali della Chiesa cattolica e insegnamenti magisteriali hanno mostrato passi avanti in questa direzione, tra cui il riconoscimento dell’autorità delle scritture ebraiche o Tanak e il valore per i cristiani della esperienza religiosa dell’ebraismo.[4]

Di questi ultimi Naro tuttavia sottolinea esclusivamente  il riferimento all’unità cristologica di AT e NT e, attraverso l’uso di una terminologia impropria  (locus semi-proprio; esautoramento dell’esegesi) si pone in una posizione critica, che sembra ignorare completamente  l’attività di teologi seri ed impegnati nel dialogo interreligioso. Naro insiste molto sulla “valorizzazione esegetica dell’istanza cristologica”, citando a sostegno della sua impostazione autori di valore come Beauchamp e Lohfink (pp. 19-22) che pure negli anni ’90 hanno fatto compiere progressi alla comprensione dei rapporti Scritture ebraiche-Antico Testamento o,  più in generale alla relazione ebraismo-cristianesimo (pp. 19-22), ma sembra ignorare lo sviluppo che la ricerca teologica, o almeno una parte di essa, ha avuto riguardo alla comprensione di tali “istanze”. Ad esempio, proprio la Lettera agli Ebrei, citata anche da Naro, è oggi sottoposta a un’ ampia revisione da parte di teologi cattolici e  non cattolici,[5] il cui intento non è di annullare/esautorare la cristologia esegetica, ma di dimostrare come talvolta interpretazioni affrettate ed univoche abbiano finito con il generare incomprensioni ed un uso improprio dei testi, che ha generato strumentalizzazioni a danno di quella conoscenza più profonda dell’ebraismo, sollecitata già da Nostra Aetate.

Nella Prefazione al Libro “Jesus Christ and the Jewish People Today”, il cardinal Kasper, ricordando i momenti più importanti del dialogo ebraico-cristiano, esprime la necessità di una cooperazione affinché si costruisca un mondo in cui eventiterribili come la Shoah non siano più ripetuti e riconosce l’esistenza nel passato di .un anti-ebraismo cristiano, di controversie anche teologiche che hanno incoraggiato la diffusione dell’antisemitismo (p. x).  Da qui la necessità, secondo il Cardinale, di affrontare temi teologici che sono all’origine delle reciproche incomprensioni e, tra queste, anche “la confessione cristiana di Gesù come il Cristo (cioè il Messia) e Figlio di Dio, che è collegata direttamente alla comprensione trinitaria del monoteismo biblico” (p. xiii).

Un aspetto importante sottolineato dalla ricerca di alcuni teologi oggi riguarda l’approfondimento del rapporto fra la cristologia e l’identità ebraica di Gesù; la cristologia e la teologia trinitaria.  Se oggi è abbastanza diffuso il riconoscimento dell’identità ebraica di Gesù, non lo sono però le sue implicazioni teologiche per la cristologia. Il 31 ottobre del 1997,  Giovanni Paolo II, durante un incontro in Vaticano con i partecipanti all’incontro di studio su “Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano” sottolineava  la connessione dell’identità ebraica di Gesù con la storia della salvezza dichiarando che coloro che la considerano un semplice fatto contingente “mettono in discussione la verità stessa dell'Incarnazione”.[6]

Ancora più interessante e nuova per numerosi aspetti è la seconda pista di ricerca: il rapporto con la teologia trinitaria. L’esperienza del Dio trinitario cristiano e il significato del monoteismo ebraico per la cristologia e la sua relazione con la concezione cristiana trinitaria di Dio è uno dei punti cardine considerato dalle nuove esplorazioni teologiche.[7]Le pagine di Cunningham sulla Trinità immanente cioè “la relazionalità essenziale di Dio in Dio” come fondamento e sostegno per “la vita d’amore che dovrebbe unire  tutti coloro che sono uniti nella vita di alleanza con Dio”  (e quindi ebrei e cristiani) sono uno degli  esempi più significativi di tale ricerca.[8]

Fare teologia nel dialogo, non significa quindi affatto esautorare la cristologia esegetica o annacquare l’identità cristiana, ma nel rispetto delle reciproche differenze, purificare la comprensione da quelle “istanze” cristologiche, da quelle  “interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebreo e la sua presunta colpevolezza” (Giovanni Paolo II, Discorso del 31 ottobre 1997),  circolate per troppo tempo a generare sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo.

E’ quindi un’azione che,  evitando gli errori del passato, da un lato porta ad una comprensione più profonda della propria fede  e dall’altro ricerca nuovi modi per affrontare  la complessità teologica della relazione ebraismo-cristianesimo. Dallo sviluppo della esplorazione teologica in campo interreligioso, la nuova cristologia potrà inoltre attingere linfa vitale per una comprensione più piena di Gesù nella sua identità umano-divina e per un proprio rinnovamento, nella più piena considerazione della relazione intra-trinitaria del Dio cristiano.  

 



[1]Editoriale, RB 1 (2012), p. 3.

[2]  Ph. Cunningham-J. Sievers- M.C. Boys- H.H. Henrix & J. Svartvikeds., Christ Jesus and the Jewish People Today. New Explorations of Theological Interrelationships.  Co-publishing EEdermans-GPBPresse, 2011. E’ ormai prossima la pubblicazione del libro in italiano, sotto il titolo: “Gesù Cristo e il popolo ebraico: Interrogativi per la teologia di oggi, ed. GBPress, collana Bible in Dialogue n.5.

[3]E. Zenger, Il Primo Testamento. La Bibbia ebraica e i cristiani, Giornale di Teologia 248, Queriniana, Brescia 1997 (1ª edizione 1991), pp. 159-174. Tuttavia lo stesso Zenger , Ibidem, p. 172 nota 176, rileva come la proposta fosse già stata fatta in termini programmatici nel 1987 da J.A. Sanders.

[4]Vedi ad esempio,Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo Orientamenti e Suggerimenti per l’Applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate4 (1974), Prologo; Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica (1986), VI, 25.

[5]Vedi, ad esempio, l’interessante studio di  J. Svarvik, Reading the Epistle  to the Hebrews without Presupposing Supersessionism, in Christ Jesus and the Jewish People Today, pp. 77-91..

[6]A questo proposito, vedi lo studio di H.H.  Henrix, The Son of God Became Human as a Jew. Implications of the Jewishness of Jesus for Christology”, in Christ Jesus and the Jewish People Today, pp. 114-143.

[7]Vedi in  Christ Jesus and the Jewish People Today, i contributi di E. Groppe, The Tri-Unity of God and the Fractures of Haman History (pp. 164-182); Ph. A. Cunningham- D. Pollefeyt, The Triune God, the Incarnate Logos, and Israel’s Covenantal Life (pp. 183-201); G.M. Hoff, A Realm of Differences: The Meaning of Jewish Monotheism for Christology and Trinitarian Theology (pp. 202-220).

[8] ‘ The Triune God, the Incarnate Logos, and Israel’s Covenantal Life’in Christ Jesus and the Jewish People Today, p. 195