Articolo: Creazione in Cristo e Jinen (Natura).

15/02/2013     Maria Brutti     4668

Creazione in Cristo e Jinen (Natura)

Cristianesimo e Buddhismo  in Dialogo

 

Introduzione

Questo lavoro si propone di cercare la possibilità di un confronto tra l’idea buddhista di jinen (natura) e la nozione cristiana di creazione, così come emerge particolarmente da un ad un testo del Nuovo Testamento: Col 1, 17.  Come sostiene Maria De Giorgi, missionaria saveriana, teologa e studiosa del pensiero spirituale del Giappone, dal 1987 presta il suo servizio presso il Centro di spiritualità e dialogo interreligioso Shinmeizan, l’idea buddhista di jinen e la nozione cristiana di creazione ci pongono di fronte a due concezioni del mondo e dell’uomo diametralmente opposte; tuttavia proprio “l’asimmetria sembra favorire, paradossalmente, nuove comprensioni e acquisizioni”.[1]

 

1. Il concetto di jinen nel Buddhismo giapponese

Come afferma ancora la De Giorgi in un articolo, chiunque entri in contatto con la cultura giapponese, presto si rende conto della particolare relazione che il giapponese ha con la natura o jinen, [2]  una natura che veicola un forte senso del numinoso e che è allo stesso tempo rigogliosa e violenta.[3]

Un riferimento di tipo terminologico può aiutare a comprenderne meglio il significato. Il termine, cino-giapponese, è composto da due ideogrammi: ji e nen, che significano, rispettivamente, “da se stesso” e “spontaneamente”, o “così com’è”. Il mondo della natura, compresi gli esseri umani, è qualcosa che esiste “spontaneamente”, “proprio com’è”. Nel giapponese moderno, dove è prevalsa la pronuncia “shizen”, indica la natura in quanto mondo degli esseri viventi o, in senso più ampio, l’insieme di tutte le cose esistenti e i fenomeni dell’universo. Tuttavia, quest’uso del termine è restrittivo e persino ingannevole, in quanto non ne trasmette le profonde implicazioni, culturali e religiose, che l’uso classico ha.[4] Da un punto di vista grammaticale, jinen non è un sostantivo e non indica persone, cose o eventi nella loro “sostanzialità”, ma è un avverbio che indica un modo di essere, la condizione di cose, persone e fatti.  Attraverso il concetto di jinen, il Buddhismo esprime la sua visione della realtà, basata sulla legge della generazione dipendente, il principio del pratîtya samutpâda,[5] che in cino-giapponese diventa engi,[6] e che sta ad indicare la reciproca dipendenza di tutti i fenomeni dell’universo, la natura relazionale di tutte le cose, la non sostanzialità degli esseri.[7] Anche l’uomo, in quanto jinen, è parte di questo flusso perenne e la sua vita e la sua morte non sono altro che momenti dell’eterno ciclo di nascita-crescita-morte-rinascita.[8]

Ma se leggiamo le sutre con attenzione, possiamo giungere a comprendere che engi nel Buddhismo è molto più che una semplice legge di causalità. E’ il contenuto dell’Illuminazione, la suprema eterna verità onnicomprensiva, che non lascia spazio ad eccedenze metafisiche. E’ la realtà come è, è il dharma come è. In questo suo essere come è, la realtà manifesta se stessa come una pluralità di fenomeni interdipendenti, di cui l’uomo è una parte. Questo corrisponde a quanto ha detto il Buddha: “Chi ha visto engi ha visto il dharma, chi ha visto il dharma ha visto engi”.[9]

Come suggerisce Takeuchi, “Il concetto della generazione dipendente è la radice e il tronco del pensiero buddhista”.[10] Tuttavia questa concezione è difficile e complessa, come veniva già sottolineato dal Buddha stesso, secondo la tradizione di uno dei testi canonici che trattano la dottrina[11] e come dimostrano le diverse interpretazioni che di essa sono state date nella storia del Buddhismo.[12] Tra coloro che hanno esercitato la più ampia influenza, si trova Nagarjuma, vissuto tra il 150 e il 250 ca d.C. il quale fondò la scuola detta Madnianika (=scuola del giusto mezzo).[13]

Il suo pensiero è ripreso da Abe Masao, uno dei maggiori filosofi buddhisti contemporanei giapponesi, impegnato nel dialogo con il Cristianesimo, il quale, riferendosi al pensiero di Nagarjuma, afferma che nel Buddhismo la realtà ultima non è Dio, o l’Essere, o la Sostanza, ma il  śūnyatā, il “vuoto”,[14] inteso come “identità assoluta di essere e non-essere, di  nirvâna e samsâra”.[15] I  Buddhisti  credono che per essere chiamata “sostanziale o reale” una cosa debba essere in grado di esistere autonomamente. Comunque, se noi osserviamo l’universo, troviamo che ogni cosa che esiste in esso, esiste solo in relazione a qualcos’altro. Un figlio è un figlio in relazione al padre e allo stesso modo il padre in relazione al figlio. Nel Buddhismo la realtà ultima è  il “vuoto”, liberato da ogni concretizzazione e sostanzializzazione nella dimensione religiosa.[16] Tuttavia la nozione di vuoto non è nichilistica, ma è strettamente legata alla concezione della generazione dipendente che manifesta se stessa attraverso la negazione dell’Atnam e lo svabhāva, cioè attraverso la cognizione del  vuoto di ogni cosa. Nel pensiero di Nagarjuma, vuoto e co-origine dipendente sono sinonimi.[17]

L’interpretazione di Nagarjuma ha dato sostegno alla progressiva identificazione, in una prospettiva monistica, del jinen (la realtà così come è) con il dharma e il Buddha stesso, inteso come manifestazione del dharma.[18] Questa visione è presente in vari autori, tra i quali Shinran. In uno scritto del 1258 troviamo quella che è stata considerata da numerosi studiosi come la formulazione finale del suo pensiero sul jinen: l’idea di jinen honī. Essa indica la  totale identificazione tra il jinen, inteso come il principio spontaneo di azione; il dharma, inteso come la legge suprema che fa essere le cose come sono e il Buddha che per Shinran è Amida, inteso come funzione salvifica che opera spontaneamente nel mondo.[19]

Abe Masao sottolinea, nella struttura logica della generazione dipendente, almeno tre elementi: 1.Tutto, dentro e fuori l’universo senza eccezioni, è correlato inter-dipendentemente da ogni altra cosa; non esiste nulla che non abbia in sé una relazione con qualcos’altro; ogni relazione è reciproca e reversibile. 2. Ogni entità che è mutualmente correlata alle altre deve avere unicità o particolarità in quanto tra le unità che non hanno unicità e particolarità non ci può essere  mutua dipendenza. 3. Ma come è possibile, si chiede Abe, che due aspetti apparentemente contraddittori, e cioè la completa interdipendenza e la unicità di ogni entità, siano ambedue impliciti nella struttura della generazione co-dipendente? La risposta è perché non c’è un principio particolare, come Dio, Brahma, l’ Essere che, essendo al di là, dietro, al di sotto della originaria relazione co-dipendente tra tutte le cose ne costituisce un fondamento. In altre parole, i due aspetti apparentemente contraddittori operano insieme senza contraddizione, perché la relazione dell’origine co-dipendente si svolge nel luogo del “vuoto”.[20] Secondo Abe, proprio la legge della generazione co-dipendente, che considera l’interdipendenza tra tutte le entità come la verità, impedisce al Buddhismo di accettare la dottrina cristiana secondo la quale la creazione “non e 'la creazione di qualcosa', ma la creazione dal nulla”.[21]  Comunque, suggerisce De Giorgi, quanto l’interpretazione di Abe Masao sia espressione di tutto il Buddhismo, specialmente della sua tradizione più antica o, in particolare, della prospettiva monistica della scuola Mahayana, è problema ermeneutico interno al Buddhismo. In una delle Udana, le antiche sentenze sapienziali attribuite al Buddha scritte in forma poetica, si è vista la fede del Buddha in qualcosa che stava dietro i fenomeni mutevoli della esistenza.[22] Secondo De Giorgi, l’esistenza di differenti punti di vista dentro il Buddhismo rende ancora più importante, necessaria e stimolante la comparazione con l’idea cristiana di creazione.[23]

 

2. Il concetto di “creazione” nella dottrina cristiana

Valentino Maraldi, riflettendo sull’idea di creazione nel pensiero cristiano, osserva come,  a partire dall’illuminismo, essa si sia sviluppata intorno alla nozione metafisica del rapporto causale tra Dio, l’Essere supremo e gli enti contingenti e come, quindi, l’azione creatrice sia stata ridotta “al momento originario e iniziale della produzione delle cose «secondo tutta la loro sostanza”.[24] Lo stesso Maraldi considera questa tendenza una “deriva apologetica”, che tendeva a considerare la dottrina cristiana di creazione come una verità di ordine razionale, che doveva essere sviluppata secondo principi e argomentazioni di carattere filosofico.[25]  Tuttavia, lo studioso rileva anche come già Tommaso d’Aquino avesse posto l’accento sulla necessità della conoscenza delle persone divine “per avere una comprensione adeguata della creazione” (Summa Theologica I, 32,1-3) e questa rivendicazione è stata alla base, nei primi decenni del XX secolo, del rinnovamento della dottrina della creazione secondo la prospettiva trinitaria. La creazione, quindi, era vista non come una verità di ragione, ma come un articolo di fede.[26]  Ma questa prospettiva, soprattutto attraverso il pensiero di Karl Barth, finiva con il contrapporre la verità di fede a ogni altra verità di ordine cosmologico e creava così un profondo fossato tra la dottrina della creazione e le scienze della natura.[27] Negli ultimi decenni si sono perciò sviluppate altre teologie le quali sembrano privilegiare “un metodo interdisciplinare e dialogico nei confronti delle scienze e della natura”, sia attraverso la consapevolezza che la conoscenza della realtà mediata dalle scienze naturali non può essere isolata e separata dagli interrogativi di tipo religioso sul senso della realtà e della esistenza dell’uomo, sia attraverso la convinzione che per la fede cristiana la realtà di cui parla lo scienziato non è altra da quella di cui parla il teologo, il quale deve tenersi informato e aggiornato sulle acquisizioni scientifiche, per esaminare se tenerne conto nella revisione del suo insegnamento.[28] Secondo Maraldi, sono tre le dimensioni fondamentali che la teologia cristiana ha riconosciuto tradizionalmente all’azione creatrice: la creatio prima, la creatio continua e la creatio eschatologica.[29]

Non mi è possibile, per il contesto e i limiti di questa ricerca, approfondire questi temi nemmeno per linee generali, ma vorrei riferirmi, anche in relazione alla impostazione particolare di questo lavoro, ad una di questa tendenze, la creatio prima, a partire però dalla particolare prospettiva, quella per la quale tutto è stato creato “nel Figlio”.[30] Come ossserva Moltmann, se il fondamento della salvezza per tutto il creato e per gli uomini peccatori è Cristo, Cristo allora “sarà anche il fondamento per l’esistenza dell’intero creato, dell’uomo e della natura”.[31]

L’idea protologica della creazione del creato per mezzo di Cristo ha il proprio fondamento in alcuni testi del Nuovo Testamento che parlano di Cristo come del “mediatore del creato”.[32] Nel contesto di questa ricerca, mi riferirò soprattutto ad uno di essi:  Col 1,17. 

 

2.1  Il Cristo cosmico in Col 1:17: status quaestions

17Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. (Bibbia CEI 2008).

Il versetto si trova nel contesto dell’inno cristologico (vv. 15-20), che si ritiene in genere oggi abbia fatto parte di una tradizione proto-cristiana, forse quella nota alla cristianità dell’Asia, nella quale l’autore della Lettera ai Colossesi ha inserito “brevi glosse conferendogli così particolari accentuazioni.[33]

 Nel 1965 Feuillet, in uno studio sulla creazione dell’universo nel Cristo secondo Col 1,16, sottolineava l’imbarazzo degli esegeti di fronte a questo versetto, dichiarando di non averne trovato fino ad allora una spiegazione soddisfacente.[34] A suo parere, nel testo si poteva vedere una dipendenza dalla filosofia popolare nell’uso delle molteplici preposizioni per esprimere i vari rapporti dell’universo o dell’umanità con Dio o con il Cristo.[35] Tra le diverse “inadeguate” interpretazioni che erano state proposte, egli riteneva la migliore quella di J.B. Lightfoot e J. Huby, secondo i quali, per spiegare il v. 16a era necessario partire dall’ “in lui” / del v. 17 (tutte sussistono in lui): se realmente tutte le cose hanno la loro coesione (synesthēken) in Cristo, è perché in origine esse sono state create in lui come loro centro d’unità e, di conseguenza, tutte le leggi che presiedono al governo dell’universo, hanno il loro punto di partenza in Cristo.[36]

Tuttavia l’impostazione dello studio di Feuillet era rivolta piuttosto a considerare Col 1,16 e non il versetto 1,17, sul quale si concentra ora l’attenzione di questo breve studio.

Da Feuillet in poi, fino ad oggi, la ricerca  si è focalizzata su alcuni temi, quali l’origine dell’inno,[37]il genere letterario e la struttura,[38] i titoli cristologici, il rapporto tra Cristo e la Sapienza,[39] l’errore o eresia dei Colossesi,[40] le implicazioni teologiche del brano quali la relazione tra creazione e redenzione.[41]  Una attenzione solo marginale è stata data al v. 17.  

Uno dei commenti che hanno esercitato maggiore influenza è stato quello di Lohse, secondo il quale  l’enunciato di Col 1,16 riguardava  la posizione unica del Cristo preesistente: tutto è creato in lui. La proposizione iniziale: “in lui furono create tutte le cose” veniva ripresa da “
per mezzo di lui e in vista di lui Tutte le cose sono state create”, dove il perfetto, introduceva il v. 17: “Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”. Secondo Lohse si trattava di espressioni di origine stoica. “Causa, sussistenza, fine: tutto è la natura compenetrata da forze divine”.[42]Attraverso il variare delle preposizioni, veniva espressa l’unità estrema di tutto ciò che è. Dio e la natura sono considerati e sono effettivamente una cosa sola.[43] Tuttavia lo studioso ribadiva come questa concezione, propria della filosofia popolare ellenistica, aveva subito nel giudaismo un notevole cambiamento. Il Dio di Israele non poteva identificarsi con la natura; la fede di Israele non poteva essere vanificata da una visione panteistica del mondo. Se la vastità del creato può essere descritta con concetti stoici, Dio “rimane il suo Signore, che agisce nella natura come creatore, ma le sta di fronte come un sovrano”.[44] Questa formulazione è stata collegata dalla comunità cristiana nella professione di fede in Cristo come mediatore della creazione, “nel quale, per mezzo del quale e per il quale tutto è stato creato”[45]Il v. 17 sottolineava dunque che Cristo è “prima di tutte le cose”e, in quanto Preesistente, è il Signore del cosmo. Il cosmo non è solo creato in lui e per mezzo di lui, ma ha anche il suo ubi consistam in lui solo. Nella filosofia platonica e stoica, il verbo synestekēnaisintetizzava l’unità di tutto il cosmo.[46] Tuttavia, a mio parere, l’espressione “ubi consistam” non chiarisce appieno il significato del verbo synestēken.

Alcuni commentatori successivi attribuiscono al verbo, in genere con una certa concordanza, il significato di “mantenere insieme”[47], “stanno unite insieme”, ma con differenti specificazioni di senso. Secondo Won Suh, il senso del verbo è che il Creatore mantiene in essere ciò che egli ha creato, se ne prende cura, conserva la sua unità e armonia. Il Logos divino, Dio stesso, è il legame unificante   che tiene insieme tutte le cose, costituendole in sistema unitario.[48]

Questa interpretazione del testo è parzialmente condivisa da Rossé, per il quale il v. 17 intende sottolineare la preminenza di Cristo come primogenito di unità, di coesione che mantiene il mondo e impedisce che ritorni nel caos. Ma l’esegeta vuole soprattutto sottolineare la posizione di Cristo «sopra» l’universo, la sua preminenza sovrana nello spazio e nel tempo:[49] Cristo esprime la relazione di Dio con il mondo. E’ infatti il cosmo che gode dei favori di  questa relazione.[50]

Interpretando l’espressione “tutte le cose sussistono in lui” alla luce di altri passi biblici, Attinger[51] osserva che l’idea espressa non è soltanto che “tutto riceve vita o è mantenuto in vita dal Cristo-Sapienza, ma che egli dà coesione al tutto facendone un kosmos”.[52]

Questo significava forse “panteismo”, “monismo”? Secondo Aletti, che insiste sul collegamento tra i vv. 16 e 17, l’autore di Col 1,16 attraverso l’uso delle preposizioni en, dia, eis evita accuratamente ogni panteismo, sottolineando la dipendenza di «tutte le cose» in rapporto al loro principio unificatore.[53] A suo parere, inoltre, il v. 16 afferma chiaramente l’idea della mediazione del Figlio e il v. 17 spiega, in forma paratattica, le implicazioni di questo stato di fatto: “tutto fu creato per mezzo di lui, ed egli stesso è davanti a tutto, e tutto sussiste in lui”.[54] Tuttavia il significato dell’espressione “tutto sussiste in lui” non viene esplicitato ulteriormente.[55]

Una posizione leggermente diversa sembra essere sostenuta da Arnold, per il quale l’espressione “Tutte le cose stanno insieme in lui” completa ciò che nei vv. precedenti è stato detto a proposito del ruolo di Cristo nella creazione. Cristo non solo “ha portato tutte le cose all’esistenza ma egli sostiene (synestēken ) anche tutte le cose.[56]Gli autori più recenti non sembrano aggiungere al verbo particolari nuove prospettive di approfondimento del significato. Molti di loro insistono sulla dipendenza da concetti stoici o sul parallelismo con altri testi biblici.[57]

A questo proposito, mi sembra particolarmente urgente, a conclusione di questo breve excursus, una riflessione di carattere terminologico. Se noi consideriamo  l’uso di sunivsthmi in testi del Nuovo Testamento,[58] vediamo una certa varietà di significati[59] che tuttavia, per la forma del perfetto intransitivo (sunevsthken) si riduce a tre testi (Lc 9,32; 2 Pt 3,5 e Col 1,17), due dei quali si trovano in un contesto cosmologico. A questo proposito Kreutzer, osservando che  Col 1,17 presenta Cristo come colui nel quale l’universo ha la sua sussistenza e che il perfetto synestēkenindica “il permanere di ciò che è compiuto”, nota che in 2 Pt 3,5 è presente la stessa cosmologia, caratterizzata da influssi  del pensiero stoico-ellenistico che scompone il mondo in singoli elementi. In 2 Pt 3,5 la terra ha consistenza mediante l’acqua intesa «come mezzo di creazione ed elemento primigenio».[60]

Tuttavia, mi permetto di osservare che “sussistenza e consistenza” sono termini dal diverso significato che, peraltro, in riferimento al verbo sottostante (synestēken) creano ambiguità nella interpretazione.

Il perfetto sunevsthken si trova solo due volte nell’uso della LXX  e nello stesso versetto (Lev 15,33),[61] dove il suo uso, nel contesto delle impurità sessuali, non è significativo ai fini di questa ricerca.  Mi sembra invece più importante invece un’altra osservazione: i testi, sia dell’AT che del NT indicati da alcuni studiosi come paralleli per esplicitare il senso di Col 1,17,[62] non hanno mai il verbo sunivsthmi, quindi la loro somiglianza è solo indiretta, di tipo concettuale, non testuale.

In conclusione, sulla base di questa breve indagine terminologica, mi sembra più corretto riferirmi al significato di  synestēken, più semplice ma più chiaro e sicuro, presente nel terzo testo del NT. In Lc 9,32 Mosè ed Elia “stanno insieme, sono uniti” con il Gesù trasfigurato, ad indicare una unione locale a cui si aggiunge anche un significato più profondo ed esistenziale che rimanda alla comune missione e al destino profetico.[63]

E’ questa la proposta ad esempio di Bargellini, il quale vede nel v. 1,17b l’eco del linguaggio platonico e stoico, filtrato dal giudaismo ellenistico, e interpreta l’espressione: ta; pavnta ejn aujtw'/ sunevsthken come “tutte le cose stanno unite in lui”.[64]

Quest’ultima traduzione sottolinea l’unità delle cose nella relazione con il Cristo e, allo stesso tempo, l’unità delle cose nella relazione tra loro. Considerando la creazione in ottica cristologica, Rodante sottolinea nel testo di Col 1,17 l’evidenza del rapporto fondamentale che lega Gesù all’universo per cui “tutte le cose create in lui, mediante lui e per lui, hanno la loro sorgente ed il loro punto di sussistenza e di convergenza nel Figlio”.[65] Proprio questo concetto di molteplice relazione permette forse la possibilità di una comparazione con il pensiero buddhista, senza negare le profonde differenze che comunque rimangono con il pensiero cristiano.

 

Conclusione

Questa breve ricerca ha evidenziato la difficoltà di interpretazione per un testo chiave del concetto cristiano di creazione. Considerando l’idea di Cristo come fine del cosmo in Col 1,17, Rossé osservava tuttavia come le rappresentazioni cosmologiche non facessero parte dell’annuncio evangelico e come fossero secondarie rispetto all’evento centrale della fede cristiana, che è il Cristo Salvatore.[66] Gibbs sottolinea nella nozione cristiana di creazione lo stretto legame con il concetto di redenzione e vede nell’inno di Colossesi, in particolare nei vv. 17-18, una relazione  di tipo dinamico, per la quale l’opera del Figlio nella creazione e nella redenzione sono unite insieme.[67]

In riferimento al pensiero buddhista, Kloetzi osservava come un aspetto comune e largamente riconosciuto dell’insegnamento del Buddha riguardasse il rifiuto delle speculazioni sull’inizio e la fine del mondo, la natura limitata o illimitata della sua estensione nello spazio e una varietà di problemi che collegavano l’anima e il corpo al cosmos.[68] Il Buddha rifiutava di rispondere alle varie questioni riguardanti il cosmo e l’esistenza umana perché esse erano vane e non avevano significato per la salvezza.[69]  Ma, notava Kloetzi, nonostante l’avversione della comunità buddhista verso le speculazioni su questioni cosmologiche, esse occupano nel pensiero buddhista un posto prodigioso.[70]

Tra le varie cosmologie, quella propria del Buddhismo Mahayana è caratterizzata da innumerevoli sistemi di mondi, distribuiti attraverso le dieci regioni dello spazio, la cosiddetta “cosmology of innumerables”.[71] All’interno di questo pensiero, troviamo la nozione del  “Campo di Buddha” e della visione del Buddha “whose yogic facility endows it with reality, and whose skill-in-means (upāya) makes the cosmos itself an agent of salvation”.[72] Il “Campo di Buddha” richiama il Buddhismo della Terra Pura o Amidismo, sintetizzato da Shinran come fede nel voto originario di Amida “per opera del quale viene offerta la salvezza a tutti”.[73] Nel Buddhismo si può trovare un collegamento tra natura/jinen/dharma/Buddha..

Se scopo di questo studio era di cercare la possibilità di un confronto tra Buddhismo e Cristianesimo attraverso la lettura dell’idea buddhista di jinen (natura) e la nozione cristiana di creazione di Col 1,17, posso dire che, al di là delle profonde differenze proprie dei due sistemi di pensiero, questa possibilità appare. Ma certamente, in questo contesto e per la mia limitata conoscenza del Buddhismo, io non posso andare oltre.

Vorrei tuttavia chiudere con una riflessione più generale. Nello scintoismo esiste l’usanza di collocare uno specchio nella parte più interna del tempio, al posto centrale, come simbolo della divinità.[74] Sono gli dei dell’egoismo di fronte ai quali l’uomo, brancolante nel buio, si prostra prima di essere illuminato dalla luce del Buddha Amida.[75]  Anche secondo il Nuovo Testamento noi cristiani di oggi “vediamo come in uno specchio in maniera confusa” (1 Cor 13,12), ma la visione incerta della fede è strettamente connessa alla speranza di una futura visione “faccia a faccia”.

 Al di là delle differenti motivazioni, proprio questa comune e allo stesso tempo diversa consapevolezza della impossibilità per l’uomo di vedere direttamente e chiaramente la propria Realtà Ultima, dovrebbe spingere oggi le religioni e, nel caso specifico, Buddhismo e Cristianesimo, all’incontro. Un incontro, un dialogo nel quale, come dice De Giorgi, “il confronto interno circa il fondamento della propria proposta religiosa è condizione preliminare e indispensabile e, viceversa, il confronto dialogico è stimolo e provocazione per quello interno”.[76]

 



[1] Maria De Giorgi, In dialogo con il buddhismo giapponese. Temi scelti. Unità 2, Dispense private, Pontificia Università Gregoriana, Anno Accademico 2997/2008, Corso IRA002, Vedi anche A. Rodante, Dio Keniotico e Sunyata Dinamico. Il contributo di Masao Abe al dialogo tra Buddhismo e Cristianesimo, Roma 1999, p. 283 dove lo studioso sottolinea che “quando i buddhisti si sono dovuti confrontare col Cristianesimo, la dottrina del Dio creatore ha costituito per loro uno dei punti più discutibili e controversi”.

[2]‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation. Suggestions for a deeper dialogue between Japanese Buddhism and Christianity’, Pro Dialogo 122 (2006/2), p. 195.

[3] Appunti propri presi durante il corso. Come diceva  la prof.ssa De Giorgi, il concetto di jinen nasce dall’incontro del Buddhismo con il Taoismo e il Confucianesimo; soprattutto dal Taoismo, il Buddhismo ha derivato termini e concezioni e, tra questi, il jinen.

[4]‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation, p. 196.

[5] Vedi De Giorgi, ‘Dialogo Interreligioso: “Diaconia alla Verità”’, in E.B. Vidal-I. Morali edd., Sentire cum Ecclesia. Homenaje al Padre Karl Joseph Becker, Valencia 2003, p. 37 la quale ricorda che il termine appare per la prima volta nel Suttanipada (v. 653), ma l’idea che vi soggiace è presente già negli insegnamenti più antichi, espressa da vari termini. Il composto  pratîtya samutpâda letteralmente significa: “sorgere da causalità”, o  “sorgere dalla condizione precedente”.

[6] Ibidem. Appunti propri da Maria De Giorgi.

[7] Appunti propri.

[8] ‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation, p. 196. C’è un termine che comprende bene questa idea. Shōji=vita-morte, vedi Appunti propri.

[9]M. De Giorgi, ‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation, p. 196.

[10] Vedi Y. Takeuchi, Il cuore del Buddhismo. Alla ricerca dei valori originari e perenni del Buddhismo, Bologna 1999, p. 115 dove le metafore sono così spiegate: “Per quanto rigogliosi possano essere stati i rami e le foglie della filosofia del tardo buddhismo, per quanto profumati siano stati i suoi fiori e i suoi frutti, tutto alla fine dipende da questo concetto centrale e da esso trae la sua linfa vitale”.

[11] Ibidem, p. 115 dove a un discepolo che affermava: “Mentre questa dottrina degli eventi derivanti da cause è così profonda e appare così profonda, a me sembra estremamente chiara!”, il Buddha risponde: “Non dire così! Difficile è l’origine da precedenti, difficile da capire. Senza la comprensione, senza l’approfondimento di questa dottrina, non si supera il ciclo delle generazioni, aggrovigliato come una matassa, immerso nelle tenebre, simile a cespugli di erba pungente e tagliente, sfuggente, doloroso, ruinoso samsāra”.

[12] Per la storia della generazione dipendente, vedi  Takeuchi, Il cuore del Buddhismo, pp. 140-169.

[13]De Giorgi, ‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation, p. 197.

[14]M. Abe, Zen and Comparative Studies. Part two of a Two Volume Sequel to Zen and Western Thought, University of Hawai’I Press, Honolulu 1997, p. 42 dove viene riportata la sequente spiegazione terminologica: “… Śūnyatā is a combination of the stem śūnya, ‘void or empty’, and a participle suffix, tā, here rendered as ‘ness’. Śūnyatā is therefore translated as ‘Voidness or Emptiness’.

[15] De Giorgi, ‘Dialogo Interreligioso: “Diaconia alla Verità”’, p. 40.

[16] Ibidem, p. 49.

[17] Ibidem, p. 50.

[18] ‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation, p. 197; vedi anche Abe, Ibidem, p. 93, il quale ricorda sia la tradizione secondo la quale il Buddha raggiunse l’Illuminazione proprio meditando la pratitya samutpada, sia l’insegnamento del Buddha per il quale “Those who see coo-dependent origination see the Dharma, see the Buddha”.

[19]De Giorgi, ‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation, p. 197.

[20]Abe, Zen and Comparative Studies, p. 98. De Giorgi, ‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation, p. 198.

[21]Ibidem, p. 100.

[22]De Giorgi, ‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation’, p. 198. Vedi Udana 8:3 “There is, monks, an unborn — unbecome — unmade — unfabricated. If there were not that unborn — unbecome — unmade — unfabricated, there would not be the case that emancipation from the born — become — made — fabricated would be discerned. But precisely because there is an unborn — unbecome — unmade — unfabricated, emancipation from the born — become — made — fabricated is discerned”.  Da http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/kn/ud/ud.8.03.than.html.

[23]‘Buddhist Jinen (Nature) and Christian Creation’, p. 198.

[24] ‘La creazione nel pensiero trinitario. Il Dio Trinitario origine e compimento del creato, in V. Maraldi ed., Teologie della creazione e scienze della natura, EDB Bologna 2004, pp. 57-58.

[25] Ibidem, p. 57.

[26] Ibidem, p. 58.

[27] Ibidem.

[28] Ibidem, p. 61.

[29] Ibidem, p. 60.

[30] Ibidem, p. 68.

[31] J. Moltmann, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione.  Brescia 20073, p. 118.

[32] Ibidem, dove Moltmann cita 1 Cor 8,6; Ef 1,9 ss.; Col 1,9-17 ss.; Eb 1,2; Gv 1,1.3.

[33] Vedi E. Lohse, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, Commentario Teologico del Nuovo Testamento, Brescia 1979, pp. 100-102. La prima edizione risale tuttavia al 1968.

[34]‘La creation de l’universe 'dans le Christ' d’après l’Epître aux Colossiens (I, 16a)’, NewTest.Stud. 12 (1965), p. 1.

[35]  Ibidem, pp. 1-2 dove Feuillet si sofferma sull’uso delle preposizioni e)n, dia\, ei)j che Seneca attribuisce a Platone e in Filone.

[36] Ibidem, p. 2.

[37] Vedi Lohse, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, pp. 106-108; J.G. Gibbs, Creation and Redemption. A Study in Pauline Theology, Leiden 1971, pp. 94-96.

[38] Aletti p. 85 ss.

[39] G. Rossè, ‘La funzione cosmica del Cristo secondo il Nuovo Testamento III’, Nuova Umanità 8 (1986) nr. 45,  pp. 16-20.

[40] J.N. Aletti, Lettera ai Colossesi, Bologna 1994, p. 16ss.

[41]Gibbs, Creation and Redemption, pp. 91-114.

[42] Lohse, Le lettere ai Colossesi e a Filemone,  p. 112.

[43] Ibidem, p. 113.

[44] Ibidem.

[45] Ibidem, p. 113. Vedi anche p. 114 dove Lohse considera il parallelismo con il concetto di sapienza in Prov 3,19; 8,27-31. Vedi per concetto di sapienza anche Rossé, III, p. 16.

[46] Lohse, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, p. 117.

[47] Questa traduzione è entrata anche nella Bibbia cattolica, vedi Holy Bible, New Revised Version, Catholic Edition 1993. Col 1,17 “He himself is before all things, and in him all things hold together”.

[48]Chul Won Suh, The Creation-Mediatorship of Jesus Christ. A Study in the Relation of the Incarnation and the Creation, Studies in Theology, IV, Amsterdam 1982, p. 285.

[49] G. Rossé, ‘La funzione cosmica del Cristo secondo il Nuovo Testamento II’, Nuova Umanità 8 (1986), n. 43, p. 89.

[50] Ibidem, p. 92 dove Rossé osserva come nei nei vv. precedenti ritorni almeno sei volte il termine ta panta a designare la totalità del cosmo.

[51]  D. Attinger, La lettera ai Colossesi. Commento esegetico-spirituale, ed. Qiqajon, Bose 1989, p. 32 cita in particolare 43,26; Sap 1,7.

[52] Ibidem.

[53] Aletti, Lettera ai Colossesi, p. 93.

[54] Ibidem, p. 96

[55] Ibidem, p. 97 dove Aletti  si sofferma piuttosto sulle incertezze provocate dal testo, quale ad esempio se si riferisca alla creazione o alla nuova creazione. A suo parere comunque, la lettera secondo la quale in Cristo furono (ri)create tutte le cose e che in lui solo trovano ormai coesione o unità, pone seria difficoltà.

[56]C.E. Arnold, The Colossian  Syncretism. The Interface between Christianity and Folk Belief at Colossae, Tübingen 1995, p. 257. Vedi anche C.R. Donaldson, Colossians, Ephensians, First and Second Thimoty, and Titus, Louisville 1996 , pp. 26-27 per il quale  “ in him [Jesus] all things hold  together” del v. 17 significa che “Jesus is the entire and single key to cosmic and human experience”.

[57]Vedi, ad esempio, M. Meye Thompson, Colossians and Philemon, Michigan/Cambridge 2005, p. 30; Ben Witheringhton III, The Letters to Philemon, the Colossians, and the Ephesians. A Social-Rethorical Commentary on the Captivity Epistles, Michigan/Cambridge 2007, p. 134; C.H. Talbert, Ephesians and Colossians. Commentaries on the New Testament, Michigan 2007, pp. 188-189.

[58]W.F. Moulton-A.S. Gedenedd., A Concordance to the Greek Testament acccording to the texts of Wescott and Host, Tischendorf and the English Revisers, Edinburgh 1906, 1929, 1979, p. 923 elencano  15 occorrenze:  Lc 9,323; Rom 3,5; 5,8; 16,1; 2Cor 3,1; 4,2; 5,12; 6,4; 7,11; 10,12.18; 12,11; Gal 2,18; Col 1,17; 2 Pt 3,5. 

[59] W. Kasch, voce sunivsthmi, GLNT, XIII, Brescia 1981, coll. 263-270 afferma che, nel molteplice uso linguistico attestabile da Omero fino al tardo ellenismo, per il NT sono importanti cinque significati: intransitivo a) comporsi di o essere costituito da qualcosa; b) perfetto: esistere, essere; c) mettersi insieme, affollarsi; perfetto: stare insieme, star ritti; d) raccomandare; e) presentare, mostrare come.

[60] A. Kreuzer, voce sunivsthmi, in H. Balz-G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, II, Brescia 1998, col. 1502.

[61]E. Hatch - H.A. Redpath, A Concordance to the Septuagint and the Other Greek Versions of the Old Testament (including the Apocryphal Books), II, Graz 1954, p. 1317.

[62] Vedi, ad esempio, tra gli altri, Meye Thompson, Colossians and Philemon, p. 30 la quale riporta la traduzione di Sir 43,26: “By his word all things hold together”, ma dove il verbo è sugkeivtai; vedi In particolare lo studioso cita Sir 43,26; Sap 1,7, vedi  D. Attinger, La lettera ai Colossesi. Commento esegetico-spirituale,  p. 32, il quale, oltre a Sir 43,29 cita Sap 1,7 dove il verbo è sunevcon; vedi anche Talbert, Ephesians and Colossians, il quale cita anche testi del NT come Ebr 1,2; 1 Cor 8,6 che tuttavia non hanno il verbo sunivsthmi.

[63] Ibidem.

[64] Lettera ai Colossesi. Nuova traduzione, introduzione e commento, in B. Maggioni-F. Manzi edd., Lettere di Paolo, Assisi 2005, p. 979. Latraduzione italiana “sussistono”, presente ancora nella ultima edizione della Bibbia CEI (2008) appare generica e inadeguata rispetto al termine greco.

[65] Dio Keniotico e Sunyata Dinamico, pp. 288-289.

[66] ‘La funzione cosmica del Cristo secondo il Nuovo Testamento III’, pp. 28-29

[67] Creation and Redemption, p. 107. Devo però osservare che la relazione tra creazione e redenzione nel pensiero cristiano è questione ampia e complessa, il cui approfondimento esula dai liniti di questa ricerca.

[68] W.R. Kloetzi, Buddhist  Cosmology. Science and Theology in the Images of Motion and Light,Delhi 2007, p. 1.

[69] Ibidem, p. 2.

[70] Ibidem, p. 3.

[71] Ibidem, p. 5.

[72] Ibidem, p. 6. Sulla nozione del “Campo di Buddha”, vedi anche P. Williams, Il Buddhismo Mahayana. La sapienza e la compassione, Roma 1990, pp. 258-261.

[73] Vedi Introduzione a cura di F. Sottocornola, in F. Tairyū,  Incontro con il Buddhismno della Terra Pura. Commento al Tannisho, Bologna 1989, p. 22.

[74] Tairyū,  Commento al Tannisho, p. 150 nota 150.

[75] Ibidem, p. 151.

[76] Sentire cum Ecclesia, p. 47.