La questione ebraica e la coscienza cristiana. Lettera pastorale

Documenti sulla Nostra Aetate (1965)

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Liénart, Achille (1884-1973)
Francia

Manifestazioni di ostilità verso gli ebrei si sono avute di recente in diversi paesi, in Germania, in Inghilterra, in Belgio, in Italia e anche in Francia; croci uncinate, stelle ebraiche accompagnate da slogans anti-ebraici sono state ritrovate sulle mura delle sinagoghe, una delle quali è stata anche incendiata. Questi episodi sono spiacevoli, soprattutto perché sono il segno inquietante di un risveglio dell'antisemitismo, che durante l'ultima guerra abbiamo visto fino a quali eccessi possa condurre. Si ebbero allora in Francia deportazioni in massa di famiglie ebraiche in condizioni spaventose e l'uccisione, nelle camere a gas tedesche, di parecchi milioni di uomini, donne e bambini il cui solo crimine era, agli occhi dei loro carnefici, di appartenere alla razza ebraica.

Uno stato d'animo così pericoloso non deve trovare alcuna complicità presso i cristiani, nonostante i pretesti religiosi con cui cerca a volte di giustificarsi. Pertanto, al momento in cui lo vediamo ricomparire, ci sembra opportuno premunirvi nei suoi confronti, esponendovi in questa lettera la dottrina troppo poco conosciuta della chiesa sul destino del popolo ebraico. Essa ci obbliga, dal punto di vista umano e dal punto di vista religioso, a rifiutare assolutamente l'antisemitismo e ad adottare, nei confronti di questo popolo un atteggiamento di rispetto e d' amore che ne è esattamente l' opposto.

Dal punto di vista umano l'antisemitismo sfrutta l'istinto perverso che tanto facilmente oppone l'una contro l' altra le diverse razze. Verso alcune proviamo una naturale simpatia mentre altre ci ispirano antipatia e disprezzo.

Ciò si nota nel nostro modo di considerare i popoli neri o i popoli gialli, i nord-africani o anche alcuni popoli europei che vivono non lontano da noi; e ancora più spesso nei confronti del popolo ebraico che, disperso tra tutte le nazioni, conserva in mezzo a noi i suoi caratteri etnici, la sua mentalità, i suoi usi, la sua religione.

Facciamo attenzione a questo razzismo cieco, fonte di tante ingiustizie e inimicizie. Se noi lo proviamo, come tutti, dobbiamo liberarcene, nel nome stesso della nostra fede cristiana. Poiché sappiamo che, a dispetto della diversità delle razze, tutti facciamo parte della stessa specie umana, creata da Dio nell'unità, che tutti gli uomini sono nostri fratelli e che tutti hanno diritto al nostro rispetto e al nostro amore. E noi crediamo anche all'universale redenzione per la quale il Cristo Gesù, nostro Salvatore e nostro Capo, ha chiamato senza distinzione tutti gli uomini a formare un solo popolo di Dio, nel quale non c'è più, come diceva san Paolo, né giudeo né greco, né uomo né donna, né schiavo né libero, ma una sola umanità, tutta riunita nel Cristo e chiamata a realizzare il proprio comune destino sovrannaturale.

In una simile prospettiva, non c'è posto per l'antisemitismo, e non sono i pretesti religiosi che qualcuno cerca di invocare che potrebbero cambiare qualcosa.

Da questo punto di vista, dobbiamo stare in guardia contro quella concezione, che è diventata luogo comune e che è troppo semplicista, secondo la quale il popolo ebraico è divenuto un popolo maledetto da Dio, per il fatto che, attraverso i suoi capi, rifiutò, nella persona di Gesù, il messia promesso ed anzi che esso è persino un popolo deicida, per il fatto che fece morire sulla croce il Figlio di Dio. Di qui fino a concludere che esso ha meritato il disprezzo e l'ostilità dei fedeli discepoli di Cristo non v'è che un passo da fare fino a giungere a sostenere che tutto è permesso per fargli espiare questo crimine .

La vera dottrina della chiesa è completamente diversa e l'atteggiamento che ciinsegna nei confronti del popolo ebraico è all'opposto di questo spirito di rappresaglia.

Non è affatto vero che il popolo ebraico sia il primo o il solo responsabile della morte di Gesù. La causa profonda della sua morte sulla croce, sono i peccati degli uomini, e di conseguenza, ne siamo tutti responsabili: gli ebrei non ne sono stati che gli esecutori.

Non è vero neppure che sia il popolo deicida perché, se fossero stati coscienti della sua divinità, avrebbero creduto in Lui e non l'avrebbero fatto morire .

Questa mancanza di coscienza ha valso loro l' indulgenza di Gesù stesso: «Padre, disse, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Essa è stata proclamata dai suoi apostoli, in presenza del popolo di Gerusalemme, subito dopo la Pentecoste. « Voi avete rinnegato il Santo ed il Giusto» ha detto loro san Pietro in uno dei suoi primi discorsi. «Voi avete ucciso l'autore della vita... ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi; Dio però, ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti; che cioè il suo Cristo sarebbe morto. Pentitevi dunque e convertitevi, affinché i vostri peccati siano cancellati» (At 3,14-19).

Sarebbe ancora più ingiusto rendere responsabile l' intero popolo ebraico, quello di oggi come quello di allora, e dimenticare quello che gli dobbiamo. È attraverso di lui che ci è giunta la rivelazione del piano di Dio nell' Antico Testamento e che siamo divenuti eredi delle promesse divine. I suoi profeti sono i nostri profeti. I suoi salmi sono divenuti la nostra preghiera. È a questa razza che appartenne, in quanto uomo, il nostro divino fondatore: Gesù, figlio di Davide, nostro Salvatore, ed anche la santa Vergine Maria, nostra Madre, e san Giuseppe e i dodici apostoli e san Paolo e la chiesa primitiva di Gerusalemme. «Siamo spiritualmente dei semiti» diceva papa Pio XI. Non dobbiamo, dunque, se non vogliamo rinnegare la nostra origine e commettere un' ingiustizia, votare il popolo ebraico a una condanna collettiva.

Non è vero neppure che Israele, il popolo eletto dell' Antico Testamento, sia divenuto nel Nuovo un popolo maledetto. In realtà, il destino religioso di Israele è un mistero di grazia sul quale, noi cristiani dobbiamo riflettere con riverente simpatia.

San Paolo ne ha vissuto il dramma più intensamente di chiunque. Lui, l' antico fariseo, l' israelita che diceva di se stesso di essere stato «all'eccesso, accanito difensore delle tradizioni dei padri» (Gal 1,14) convertito dalla grazia di Dio sulla via di Damasco, ha sentito profondamente il problema dei suoi fratelli rimasti nell'incredulità e si è dato, con tutta l' anima, a riflettere sui misteriosi disegni di Dio a riguardo del popolo eletto. Ce ne ha rivelato il segreto nell'epistola ai Romani (Rm 9-11) ed il suo insegnamento è così pieno di speranza per il popolo ebraico e di lezioni per noi, che non possiamo far nulla di meglio che accoglierlo e seguirlo.

 Quale è stata secondo lui, la colpa di Israele? E' di aver pensato di potersi salvare da solo, grazie all'osservanza dei precetti della legge, quando invece la salvezza è un dono gratuito di Dio che si ottiene mediante la fede nelle sue promesse e nel Cristo che le ha realizzate. Esso ha avuto il torto di non credere, e di conseguenza ha lasciato il suo cammino e si è trovato fuori strada. Ne deriva forse che esso sia stato definitivamente rifiutato da Dio? Niente affatto, dice san Paolo, perché Dio è fedele ed i Suoi doni sono irrevocabili. Egli non li riprende mai. Israele dunque non è diventato un popolo maledetto ma resta per sempre il popolo eletto. La trama del suo destino non è stata affatto spezzata, è stata solamente sospesa.

Il fatto che il suo popolo sia andato fuori strada ha ostacolato lo sviluppo dell'opera di Dio? Al contrario, non è servito che a dargli più ampiezza. Un nuovo passo è stato compiuto, l'ingresso dei popoli pagani nella chiesa di Gesù Cristo. Tutte le nazioni sono state ammesse a far parte del nuovo popolo di Dio; ed esse sono chiamate ad estenderlo fino ai confini del mondo e fino alla fine dei tempi. Sul vecchio tronco di Israele, privato dei suoi rami naturali, esse sono venute, per così dire, ad innestarsi per attingere la vita dalla sua linfa e arricchirlo di una nuova fioritura. Ma «quando la massa dei Gentili sarà stata innestata» (Rm 11,25) verrà il giorno in cui Israele, a sua volta, sarà di nuovo piantato da Dio sull' albero della salvezza e riprenderà il corso del suo destino provvidenziale. «Oprofondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!» scrive san Paolo, dinanzi allo splendore di questo piano divino. «Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! A Lui la gloria nei secoli. Amen» (Rm 11,33-35).

Quanto a noi cristiani che abbiamo beneficiato del momentaneo eclissarsi di Israele guardiamoci dal glorificarci a suo danno e dall' elevarci contro di lui. Riflettiamo piuttosto che se Dio ha lasciato cadere così tragicamente i rami naturali potrebbe recidere anche noi se non fossimo fedeli. L' umiltà personale e l' amore verso Israele sono i sentimenti che la conoscenza di questo mistero ci deve ispirare. Alcuni potrebbero trovare, fratelli miei, che in mezzo a tanti gravi conflitti, interni ed esterni, che sconvolgono in questi tempi i popoli del mondo, la questione dell'antisemitismo non meritava che noi portassimo su di essa la vostra attenzione. Voi però avete compreso che la chiesa non poteva tacere ciò che legge nella sacra Scrittura.

Credo, d'altra parte, che la conclusione da trarre dall'insegnamento della chiesa, su questo tema particolare, è di una portata abbastanza generale per insegnare a noi cristiani quale atteggiamento si debba adottare verso i più gravi problemi del mondo attuale e quale immenso servizio si possa rendere al mondo, se siamo fedeli al vangelo .

Non c'è spazio in uno spirito cristiano per alcun sentimento razzista. Non solo non possiamo odiare o disprezzare gli ebrei, né i nord-africani o i neri, o qualsiasi altro popolo della terra, ma dobbiamo amarli tutti come fratelli e rispettare in essi la loro dignità umana perché tutti sono stati creati a immagine di Dio e tutti sono chiamati in Gesù Cristo allo stesso destino di figli di Dio.

In un'anima cristiana non dovrebbe esserci spazio neppure per l'odio di classe, perché non c'è più, come diceva san Paolo, né schiavo né libero ma un solo popolo in Dio.

Se tra gli uomini e tra i popoli possono sorgere dei conflitti per interessi legittimi, non è permesso al cristiano di risolverli unicamente attraverso il diritto del più forte, ma, come tra fratelli che si rispettano, in uno spirito di giustizia e di amore reciproco. A maggior ragione, mai ci è permesso di recare oltraggio alla dignità delle persone, ne fisicamente , con la violenza sui loro corpi e i loro beni, ne moralmente trattandoli come esseri inferiori o infliggendo loro umiliazioni che feriscono.

Dobbiamo saper perdonare persino i nostri emici. Pertanto non è nelle file degli «Anti» di qualsiasi genere che deve militare un cristiano, perché se la chiesa combatte gli errori non combatte gli uomini. Ella ci invita, al contrario, a metterci al servizio della carità universale di cui Nostro Signore Gesù Cristo ha fatto il «suo» comandamento supremo. I suoi discepoli hanno il dovere di praticare l' amore per tutti gli uomini e per tutti i popoli e loro è la missione di diffondere sulla terra il senso dell''uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio.

Chi non vede quanto sia urgente questo compito e quanto meriti che noi ci consacriamo interamente ad esso? Il mondo in cui viviamo è infelice. Le divisioni e gli odi che lo lacerano non fanno che moltiplicare le sofferenze e tutto è causato dal fatto che gli uomini non sanno più amarsi. Prendiamo dunque sul serio il comandamento del Signore. Siamo di coloro che amano veramente tutti i loro fratelli e il cui esempio insegnerà di nuovo ad essi a rispettarsi e amarsi l'un l'altro. Così noi li porteremo sulla sola strada che può condurci verso la pace cui tutto il mondo aspira: la pace di Cristo.

Dato a Lille, il 14 Febbraio 1960

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(da: Sestieri L. - Cereti G., Le Chiese cristiane e l'ebraismo, 1947- 1982, Marietti, Genova 1983)

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Documento inserito il 13/02/2014