Relazione sullo schema «De Judaeis et non christianis » (88a Congregazione Generale)

Documenti sulla Nostra Aetate (1965)

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Agostino Bea
Città del Vaticano

 Eminentissimi ed Eccellentissimi Padri, 

dovendo parlare dello schema della Dichiarazione «De Judaeis et non Christianis» comincerò dal fatto che questa Dichiarazione è certamente tra quegli argomenti per i quali la pubblica opinione ha mostrato maggiore interesse. 

     Non c'è altro schema del quale si sia tanto scritto sui giornali e in quelli maggiormente diffusi. Qualunque siano i motivi di questo interesse e i giudizi che si possono dare sul suo valore, il solo fatto di questo interesse mostra ben chiaro che proprio su questo punto ognuno tiene gli occhi fissi sulla chiesa e molti dall' approvazione o non approvazione di questa Dichiarazione giudicheranno bene o male del concilio. 

     Questo fatto della pubblica opinione manifesta abbondantemente che è del tutto impossibile ciò che alcuni Padri hanno chiesto, ossia che tale questione venisse tolta dal programma degli argomenti da trattarsi. 

     Il nostro Segretariato ha esaminato seriamente le ragioni presentate da questi Padri e da molti altri, sia pro sia contro, e ha fatto tutti gli sforzi perché questo testo della Dichiarazione fosse diligentemente emendato secondo i desideri espressi dai Padri conciliari. Anche i membri della Commissione preposta alla coordinazione dei lavori concili ari sanno di aver speso molto tempo attorno a questo breve testo. 

     Ecco come fu fatta tale emendazione. Innanzitutto, secondo i desideri formulati in aula nella seconda sessione del concilio, le brevi note che nel primo testo costituivano l' introduzione furono maggiormente sviluppate e divennero la seconda parte della Dichiarazione, di modo che ora lo schema è formato da due parti quasi eguali, una sugli ebrei e l'altra sui non cristiani. 

     Quanto alla prima parte, che riguarda gli ebrei, prima di tutto il testo fu ordinato molto meglio, così da avere una migliore progressione delle idee. Sono anche stati aggiunti due nuovi elementi, particolarmente due testi dalla lettera ai Romani, sulle prerogative del popolo eletto (9, 4) e sulla speranza cristiana nella finale riunione col popolo eletto del Nuovo Testamento, cioè la chiesa (11, 25). 

     Il punto centrale, sul quale sono state introdotte le modificazioni più importanti, è la questione così detta del «deicidio». E’ noto che la cosa è stata ampiamente discussa sui giornali stessi, e ciò, tuttavia, senza alcuna cooperazione o colpa del Segretariato. Eccone i principali elementi: se ed in che modo la condanna e la morte di Cristo Signore sia da ascriversi a colpa del popolo ebreo come tale. Infatti molti tra gli attuali ebrei manifestano la convinzione che la principale radice del cosidetto antisemitismo sia la credenza nella colpevolezza del popolo ebraico come tale e quindi che questa sia la fonte dei molti mali e delle persecuzioni che gli ebrei per secoli hanno dovuto soffrire. Questa affermazione non è accettabile. Già nella relazione che l'anno scorso ho letto in aula al riguardo di questo stesso schema affermavo: «Sappiamo perfettamente che dell'antisemitismo vi sono molte ragioni che non sono di ordine religioso, ma politico-nazionale o psicologico o sociale». D'altra pane, non si può negare che nella storia dei vari paesi esistono molti esempi in cui la credenza della colpevolezza del popolo ebraico come tale ha indotto i cristiani ad applicare agli ebrei coi quali vivevano l'appellativo di popolo «deicida» riprovato da Dio e maledetto e, pertanto, a disprezzarlo e perseguitarlo. 

     Per questa ragione oggi gli ebrei fanno ogni sforzo perché il concilio dica in forma pubblica e solenne il contrario, affermando che la morte del Signore non si può addebitare al popolo ebraico come tale. 

     Ora ci si domanda: Il concilio può fare o no questa dichiarazione? Se la dichiarazione è possibile, in che modo si deve fare e quale dev' esserne il tenore?   Come si vede, qui non si tratta, ne si può trattare in alcun modo, di negare qualche punto della dottrina contenuta nel vangelo. Si tratta, piuttosto, di questo: i capi del Sinedrio gerosolimitano, sebbene non fossero eletti democraticamente, secondo la mentalità di quei tempi e della stessa sacra Scrittura, erano e dovevano considerarsi la legittima autorità del popolo. Orbene, la gravità e la tragicità di ciò che questi capi hanno compiuto per la condanna e la morte di Cristo sta nel fatto che essi rappresentavano l'autorità legittima. Ma noi dobbiamo interrogarci intorno alla natura di questa gravità, ossia, se quei capi del popolo in Gerusalemme conobbero pienamente la divinità di Cristo così da poterli dire formalmente deicidi. Il Signore in croce pregò il Padre dicendo: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). se non è una formula vuota - e sarebbe pazzia il dirlo - essa certamente significa che gli ebrei non hanno compreso in pieno il delitto che commettevano. Anche san Pietro, parlando al popolo ebreo della crocifissione del Signore diceva: «So che lo avete fatto per ignoranza, come pure i vostri capi...» (At 3-17). S. Pietro, dunque, scusa in qualche modo anche i capi. 

     Lo stesso fa s. Paolo (At 13,27). Inoltre, qualunque sia la conoscenza che ebbero i capi in Gerusalemme, forse che è possibile accusare così semplicemente tutto il popolo ebraico come tale, vivente in quel tempo, per quanto hanno compiuto i capi in Gerusalemme per far morire Cristo? 

     Dal punto di vista statistico consta che al tempo apostolico la diaspora ebraica nell'Impero Romano contava circa 4 milioni e mezzo di ebrei. E questi sono, forse, imputabili di quei fatti che i sinedriti hanno compiuto in quel tragico venerdì? E se anche, dato e non concesso, quei fatti si potessero addebitare a tutto il popolo di quei tempi, come tale, con che diritto si possono rimproverare dall' odierno popolo ebraico? Forse che noi rimproveriamo a qualche altro popolo ciò che hanno fatto i suoi antenati o i suoi capi diciannove secoli prima?  

     Il nostro Segretariato si é sforzato di tener conto di questa situazione in modo che da una parte fosse affermata la colpa di coloro che hanno deciso la crocifissione di Cristo Signore, in conformità con le narrazioni evangeliche e, d' altra parte, che non fosse addebitata al popolo come tale e tanto meno a quello odierno. 

     Non giova sottolineare a questo proposito il fatto che Cristo Signore è morto per tutti gli uomini. Infatti ciò non significa che la colpa per la morte del Signore, sul piano storico, del quale esclusivamente si tratta qui, sia da attribuirsi a tutti gli uomini ne che essi nell'ordine storico, siano stati la causa efficiente della morte del Signore. D'altra parte, non si può rimproverare di questa colpa, che esso non ha, il popolo ebraico come tale, né dei tempi di Cristo, né tanto meno quello odierno. 

     Chiedo, dunque, che questo problema, e le diverse parti di esso, venga tenuto presente nel giudizio che si dovrà dare su questa parte della Dichiarazione. 

     A motivo della difficoltà della cosa, diverse formule sono state tentate in seguito per venire incontro ai desideri e alle difficoltà dei Padri. Finalmente, nella sessione del Segretariato tenutasi all'inizio del decorso mese di marzo i membri del Segretariato con unanimità morale - un solo voto negativo -approvarono il testo della Dichiarazione sugli ebrei. In esso a riguardo della nostra questione si diceva: «Pertanto tutti abbiano cura affinché tanto nell'istruzione catechistica e nella predicazione, quanto nei quotidiani colloqui, il popolo ebraico non venga presentato come un popolo maledetto o reo di deicidio». Il testo fu trasmesso in questa forma alla Commissione coordinatrice e l'eminentissimo presidente di questa Commissione con lettera datata 16 aprile comunicò che non si doveva fare alcuna menzione del «deicidio». Dopo che la pubblica opinione - non so per quale via - conobbe questa decisione si agitò, e allora sia Padri conciliari, sia altri anche non cattolici e non cristiani chiesero supplichevolmente che anche nella Dichiarazione si trattasse la questione del deicidio. Dopo diverse consultazioni lo stesso eminentissimo presidente della Commissione coordinatrice mi comunicò il testo che avete fra le mani, in cui è omessa la parola «deicidio» ma sono aggiunte le parole che ora si trovano alla fine di questo paragrafo: «Si abbia cura, inoltre, di non addebitare agli ebrei del nostro tempo i fatti che sono stati commessi nella passione di Cristo». 

     Siccome il Segretariato aveva esaurito nella sessione tenuta nel mese di marzo tutte le altre materie, non sembrò il caso di convocarne a Roma i membri per questa sola parte. della Dichiarazione. Non rimane perciò se non che lo schema della Dichiarazione sia sottoposto venerabili Padri, al vostro esame e passi in discussione. Come vedete si tratta di cosa di grande importanza ma nello stesso tempo molto difficile. Per cui il nostro Segretariato con animo grato accoglierà i vostri suggerimenti concernenti questa parte della Dichiarazione per poter definire la cosa bene e nel miglior modo possibile secondo la volontà del concilio. 

     Resta ora da dire qualche cosa sulla seconda parte della Dichiarazione, riguardante le relazioni con le religione non cristiane. Come ho già detto l'anno scorso nella discussione generale dello schema sull'Ecumenismo, molti hanno manifestato il desiderio che si parlasse più diffusamente delle relazioni con i seguaci delle religioni non cristiane e alcuni padri hanno anche domandato che si menzionassero esplicitamente i mussulmani. A nessuno sfugge l'importanza di questa questione nelle attuali circostanze, in cui dei rappresentanti di differenti religioni non cristiane cercano spesso di entrare in contatto con la chiesa cattolica, soprattutto ora che le religioni sono circondate e minacciate da irreligiosità pratica o da ateismo teorico. 

     Quando il nostro Segretariato per primo si è occupato di questo argomento - anzi fino al maggio dell'anno scorso - non esisteva alcuna Commissione o Segretariato che potesse occuparsi della cosa (il Segretariato per le Religioni non cristiane non fu istituito se non intorno alla Pentecoste di quest' anno); non c' era, quindi, altra possibilità se non che si interessasse della cosa il nostro Segretariato. Per questo motivo, con l'aiuto di alcuni periti del Concilio, abbiamo cercato di elaborare un primo schema. Dopo aver esaminato questo schema, la Commissione coordinatrice, con lettera in data 18 aprile stabilì che tre idee in particolare dovevano essere espresse: che Dio è Padre di tutti gli uomini e che questi sono suoi figli; che tutti sono, quindi, fra loro fratelli e che, perciò, si deve condannare qualsiasi specie di discriminazione, violenza o persecuzione riguardo a chiunque per ragioni di nazionalità o di razza. E a questa decisione il Segretariato ha cercato con tutte le sue possibilità di ottemperare.

     Nell'elaborazione dello schema, in conformità al desiderio espresso da alcuni Padri, si è anche fatta menzione esplicita dei musulmani. E su questo punto, mi sia consentito di dire che il testo che li riguarda è stato lodato da persone esperte in questa materia, cioè dai padri Domenicani dell'Istituto di studi orientali del Cairo e dai padri Missionari d' Africa (padri Bianchi) del Pontificio istituto di studi orientali in Tunisia. 

     Avendo però il Segretariato terminato fin dall' inizio di marzo di trattare tutte le altre materie di sua competenza, questa parte della Dichiarazione non fu possibile sottoporla al giudizio dei membri del Segretariato, la qual cosa potrà farsi ora, dopo che voi, venerabili Padri, avrete espresso il vostro pensiero sullo schema. 

     Prima di terminare vorrei dire ancora una parola intorno alla relazione che questa Dichiarazione ha con lo schema sull'Ecumenismo. Come ricordate dalla discussione che si è fatta qui l'anno scorso, ad alcuni padri non piacque l'inclusione di questa materia nello schema «Dell'ecumenismo». Ciò si comprende facilmente per il fatto che «ecumenismo» in senso stretto significa l'azione tendente a promuovere l'unità dei cristiani. Tuttavia, siccome le relazioni speciali e profonde che esistono tra la chiesa, vale a dire il popolo eletto del Nuovo Testamento e il popolo eletto dell' Antico Testamento, sono comuni a tutti i cristiani, è chiaro che esiste un nesso tra la mozione ecumenica e la questione trattata in questa Dichiarazione. Siccome, però, il vincolo che unisce i cristiani col popolo ebraico è meno stretto di quanto siano le relazioni che intercorrono tra i cristiani stessi, questa materia, dei nostri rapporti con gli ebrei, è stata in certo modo separata dallo schema sull' ecumenismo e perciò non viene svolta in un capitolo ad esso relativo, ma separatamente in una Dichiarazione, che sul piano unicamente esteriore, viene aggiunta allo schema medesimo. 

     Così, forse, tutti potranno restarne meglio soddisfatti, per quanto il punto dove questa materia è trattata non sia essenziale.

     Concludendo, dirò della natura e dell'entità dei problemi da esaminare in questo breve schema, di primo piano per la chiesa e per il mondo di oggi. Quanto ai rapporti con i non cristiani, l'importanza della cosa appare già dal fatto che questo tema viene trattato per la prima volta in tutta la storia della chiesa in un concilio; e anche dal fatto che la santa Sede ha istituito uno speciale organismo per sviluppare le relazioni con le religioni non cristiane. Tale importanza si rivela anche dalla lettera enciclica programmatica del sommo pontefice Ecclesiam suam, dove tratta dei non cristiani e del dialogo con essi. Pensiamo inoltre che nella questione in parola si discute delle relazioni dei cattolici con centinaia di milioni di uomini, della carità verso di essi; del modo di aiutarli con spirito fraterno e di cooperare con essi. 

     Per quanto riguarda il popolo ebreo è opportuno dire ancora una volta e ripetere chiaramente che non è in causa alcuna questione politica, ma religiosa. Qui non si parla di sionismo né di stato politico d' Israele, ma dei seguaci della religione mosaica, in qualunque luogo della terra essi siano. E non si tratta neppure di coprire di lodi e di onori il popolo ebreo, esaltandolo al disopra degli altri popoli o di attribuirgli particolari privilegi. 

     Ad alcuni è parso che lo schema eviti di far menzione di tutte le cose - non poche - che Cristo Signore ha detto con severità agli ebrei o degli ebrei, come pure dei benefici di Dio che questo popolo ha perduto a causa della sua incredulità. Si afferma, dunque, che lo schema non dà un' immagine sufficientemente equilibrata dello stato reale di questo popolo. Se sono molti i Padri che pensano così, è evidente che noi dovremmo riesaminare il problema con ogni accuratezza. Ci si consenta, però, di dire che lo scopo della Dichiarazione non è affatto quello di presentare un'immagine completa, sotto tutti gli aspetti dello stato del popolo ebraico. Altrimenti quante cose si dovrebbero dire, quante testimonianze si dovrebbero portare! Certo lo stesso Signore Gesù ha parlato con severità del popolo e al popolo, come sappiamo, per esempio, dal vangelo di s. Matteo, ma ha fatto tutto questo per amore, perché «esso doveva conoscere il tempo in cui era visitato» (Lc 19,44), e gli ebrei ricevessero le grazie che loro venivano offerte e si salvassero. Anche s. Paolo ai Tessalonicesi scrisse degli ebrei: «che uccisero il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi, e non piacciono a Dio e sono ostili a tutti gli uomini e impediscono a noi di parlare ai gentili affinché si salvino, onde colmano di continuo la misura dei loro peccati. Ma la collera di Dio su di loro è giunta «al colmo» (1Ts 2, 15 ss). Ma lo stesso Apostolo in un'altra parte afferma: «Dico la verità in Cristo...io provo una grande tristezza ed un continuo dolore in cuor mio. Vorrei essere io stesso anatema da Cristo per i miei fratelli» (Rm 9, 1-3). 

     Lo scopo e il fine della Dichiarazione è, dunque, che la chiesa imiti Cristo e gli apostoli in questa carità, considerando per quale via il Signore ha operato la sua salvezza e quanti benefici le ha dato per mezzo di questo popolo. Anche quando si tratta della condanna e della morte del Signore in Gerusalemme per opera dei capi degli ebrei è nostro dovere imitare la carità di Cristo Signore, che sulla croce prega il Padre per i suoi persecutori, scusandoli con quelle parole: «Non sanno quello che fanno»; noi dobbiamo imitare la carità del principe degli apostoli e dell'Apostolo dei gentili. Se il Signore, mentre soffriva la sua passione si comportò così verso i suoi persecutori, quanto maggiormente non dobbiamo noi amare il popolo ebreo di oggi che non ha alcuna colpa in questo fatto! 

     Mentre la chiesa in questo concilio studia il proprio rinnovamento e secondo la nota espressione del sommo pontefice Giovanni XXIII di v. m. si sforza di ritrovare il fervore della sua giovinezza, ci sembra che debba metter mano a questo problema affinché anche in questo si rinnovi. Rinnovazione questa così importante che si deve pagarne il prezzo anche esponendoci al pericolo che alcuni abusino di questa Dichiarazione per fini politici. Si tratta, infatti, del nostro dovere verso la verità e la giustizia, di un dovere di gratitudine verso Dio, del dovere di imitare con fedeltà e quanto più è possibile lo stesso Cristo Signore e i suoi apostoli Pietro e Paolo. Nel far questo la chiesa e questo concilio non possono in alcun modo sopportare che in questa questione vi si immischi qualsiasi autorità o ragione politica.

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Documento inserito il 18/05/2015